Vorrei partire dalla prima sequenza, che mi pare contenga molti dei segni che ritroviamo sviluppati nel corso del film. A rimanere impresso è il contrasto tra la negazione della consistenza fisica del personaggio, cancellata dall’oscurità che lo circonda, e la sua ricerca di consistenza materica, di aggancio con il concreto, testimoniata dal desiderio di contatto con la natura rappresentata dalla presenza del cavallo bianco e subito dopo dalla nascita del puledro a cui il protagonista assiste. Non a caso Menocchio, ad un certo punto, rispondendo ai suoi aguzzini dice: “Io credo nella natura, in ciò che vedo e in ciò che tocco”. Ci sono queste cose dentro il tuo film?
Si, assolutamente, credo che sia una risposta al wi-fi mode che caratterizza le nostre relazioni. Viviamo immersi in una realtà virtuale anche per quanto riguarda i nostri rapporti: quando parliamo abbiamo smesso di guardarci negli occhi per cui non sappiamo più cosa prova chi ci ascolta e chi ascolta non capisce cosa proviamo noi. Avevo bisogno di fare un film materico: fin dalle prime cartelle scritte questa necessità veniva fuori, era dichiarata. Menocchio, poi, era una grande occasione, perché andare indietro di cinquecento anni mi permetteva di accedere a quel rapporto con la materia che abbiamo perso, ma da cui comunque deriviamo. In più, negli archivi originali trovavo continuamente riferimenti panteistici, quindi, se vuoi, è stata una conseguenza persino banale seguire questa strada.
Sempre in questa scena, attraverso i primi piani sul volto degli attori, stabilisci un rapporto di vicinanza assoluta con i personaggi, che di fatto non viene mai violata. Ti volevo chiedere se questa scelta, oltre alla condivisione emotiva, rispondesse anche all’esigenza di negare il corpo del protagonista, di fatto mortificato dalle restrizioni della morale religiosa del tempo e, ancora, dalla volontà di fare dell’inquadratura una rappresentazione mentale, psicologica e sociale dello scontro ideologico e di pensiero tra Menocchio e i suoi accusatori.
Io lavoro molto sull’improvvisazione e faccio la fotografia dei miei film proprio per decidere i confini del cosiddetto “teatro” della vita, per avere la possibilità di sentire il film, di coglierlo. Gli attori non hanno letto la sceneggiatura, nessuno sapeva mai cosa andavamo a fare; io lavoravo singolarmente con ciascuno di loro, e giravamo una scena al giorno procedendo cronologicamente. È stato, dunque, un grande sforzo produttivo, ma per fortuna lavoro con persone che mi danno fiducia, e il risultato è stato conseguenza diretta dell’approccio. Per me lo scontro ideologico era il racconto, ma la cosa ancora più affascinante era provare a entrare dentro questo personaggio per coglierne il dissenso tra sè e gli altri.
Si, perché nel film Menocchio si rivolge più volte ai suoi concittadini per sollecitarli a esporre il loro pensiero, ma questi per paura rimangono in silenzio.
Esatto, credo che questo sia importante. Per assurdo il film è quasi su di loro: è in negativo su di loro!
E quindi anche su di noi, in quanto spettatori della vicenda di Menocchio: è fantastico!
Esatto!
La storia di Menocchio, condannato a morte dai tribunali della controriforma tridentina, è quella di un uomo perseguitato per la libertà delle sue idee. Le analogie con i nostri giorni, e in special modo con il rapporto tra cittadini e Stato, mi pare evidente. Ne approfitto per chiederti quanto questa prospettiva abbia inciso sulla scelta di raccontare questa vicenda.
Totale! Penso che oggi abbiamo bisogno di film radicali, soprattutto di quelli in grado di metterci di fronte al momento di scelta nel quale siamo. Oramai non ci rendiamo più conto che se non difendiamo i nostri diritti, se non li difendiamo non dall’altro ma da noi stessi e dalla nostra incapacità di riconoscerli, di darli per scontato, finiremo per perderci. Da qui il grande desiderio di fare questo “salto mortale”.
Due giorni fa, parlando del decennio 68′-78′ Silvano Agosti, alla presentazione del suo nuovo lungometraggio, faceva il tuo stesso discorso. In questo senso, tu con il tuo film ti trovi sostanzialmente d’accordo con lui nel dire che l’unico modo per ribellarsi al disciplinamento delle coscienze è quello di essere eretici rispetto allo status quo del proprio tempo. Per ribellarsi ci vuole coraggio, per esempio realizzando un’opera come Menocchio. Voglio dire che il tuo film ha qualità rare, ma è anche radicale rispetto al contesto che dovrà accoglierlo.
Se pensi ai film che ho fatto, da Genitori a TIR, ti accorgi che tutti i miei lavori sono radicali. Io non faccio film per vincere premi o per conquistare il box office, ma per dire delle cose. Poi se il mercato e gli addetti ai lavori si prendono il piacere di farsene collettori, veicolando ciò che avevo da dire, ne sono molto felice. Questo succede anche in fase di produzione e cioè nel momento in cui, dopo aver messo giù un’intenzione, si inizia a creare un interesse intorno a essa e cominciano ad arrivare i finanziamenti di coloro che decidono di produrre il film (in questo caso Nadia Trevisan con la Nefertiti Film e Bogdan Craciun). Tale adesione diventa quasi subito senso di appartenenza, come se la mia idea fosse anche la loro e questo fa la differenza in meglio. Anche tu, come critico, fai parte di questo processo, poiché anche a te demando di fare da collettore del film con le altre parti. È con lo stesso sentimento che affido Menocchio al distributore. Ognuno qui deve essere parte del meccanismo, poi se questo non funziona me ne dispiaccio ma non cambierei mai il mio modo di fare cinema. Per intendere, se mi fosse data la possibilità di fare un film in cui il primo messaggio è far ridere – cosa che ritengo importante – non lo farei, non per un pregiudizio, ma perché non è una cosa che mi riguarda. Io ho bisogno di ragionare su miei sentori, riguardo alle mie problematiche e a quelle che vedo intorno a me.
Come spettatore quando entro dentro la sala per vedere il cinema d’autore italiano, oltre alla storia, mi aspetto che lo schermo rifletta parte di chi lo ha realizzato non solo come cineasta ma anche come persona. Pensi che questo si possa dire di Menocchio e in generale del tuo modo di lavorare?
Si, i miei film sono tutti personali. A distanza di anni riguardandoli posso pensare che li avrei montati meglio, che avrei potuto cambiare qualcosa però, a parte questo, rimangono opere che rispecchiano un mio preciso momento storico.
Come si diceva, la consistenza dell’immagine è insieme materica e astratta. Questo fa si che Menocchio pur essendo caratterizzato da una forte ricostruzione storica e di costume assurga a una dimensione che lo svincola da categorie di genere cinematografico per farne semplicemente un’opera di pura visione.
Be, grazie, questo è un bel complimento! In effetti non avevo nessuna intenzione di fare un film storico, bensì mi interessava di raccontare ciò che vivo oggi in tutta la sua urgenza e, ancora, di farlo sfidando il tempo, permettendomi di andare indietro di cinquecento anni per vedere se esistono dei ponti che mi possono far sentire il presente che nasce da quel passato.
Mi volevo soffermare sulla messinscena del film, e per esempio sul tuo uso della luce, sia in senso metafisico, come luogo dell’anima, che in termini realistici, allo scopo di rendere un secolo tecnicamente poco illuminato. Come avete lavorato con il direttore della fotografia?
Così! Ho ragionato su mezzi e le connotazioni tecniche che ha avuto a disposizione qualsiasi pittore del 500’. Di conseguenza, ho escluso buona parte della strumentazione di cui normalmente dispongo come direttore della fotografia. Dietro questa scelta c’era anche quella di dare la possibilità alle persone di vivere il set come un contesto reale, non inficiato dal rischio di inciampare sui cavi, cavalletti etc. Ho girato a 360° gradi, senza ostacoli, nè segni da far rispettare.
Il film è concentrato su uno spazio fisico e psicologico ogni volta ridefinito dalla dialettica tra Menocchio e gli inquisitori. Le uniche eccezioni che spezzano questa unità sono tre sequenze: la prima è un campo lungo sul villaggio; la seconda è quella del bambino che corre lungo il fiume, dove procede la barca in cui si trova Menocchio; infine, quella dove il protagonista osserva gli affreschi in cui è ritratta l’oligarchia ecclesiastica. L’impatto di queste scene è molto forte anche per la loro eccezionalità visiva, oltre al modo con cui il montaggio le inserisce nel contesto narrativo. A questo proposito, ti volevo chiedere se era questo il tuo obiettivo o se l’organizzazione interna delle scene rispondeva ad altre esigenze.
Diciamo che per quanto è stato girato d’improvvisazione, il film è comunque stato scritto e, come ti dicevo prima, esso stesso è un tentativo di connettere il passato al presente per riuscire a metterci di fronte e a osservare ciò da cui proveniamo. Cosi fa Menocchio, che deve guardare il suo passato e quel presente rappresentato dal bambino che è diventato oramai passato. E ancora così si comporta quando guarda in faccia i suoi nemici. Menocchio è anche un film sul rapporto con la propria storia e, in questo senso, il film forse può definirsi storico.
Rigore bressoniano. Quali sono stati i tuoi modelli?
Tanti mi dicono Olmi e Dreyer, se però uno vede i miei film sa che i primi piani li ho sempre usati, quindi non so cosa risponderti. Ti posso però dire che Olmi, Dreyer e Bresson mi hanno fatto innamorare e credere nel mezzo cinematografico.
Immagino che Menocchio sia il frutto di una ricerca lunga e corposa in cui sia entrata a far parte un enorme quantità di materiale. La tua qualità come regista è quella di averla trasportata sullo schermo con una sintesi che arriva in maniera semplice e diretta, senza far pesare lo sforzo che c’è dietro.
Si, me lo ha detto anche mio figlio che ha otto anni. Sinceramente non lo so, però posso dirti che c’è una casa editrice e un critico importante come Lorenzo Padelli che vogliono riportare i miei quattro anni di ricerche in un libro. Nei miei primi due anni ho girato i musei non solo per studiare la luce ma per conoscerne le scenografia e i costumi dell’epoca. Cioè, sono partito da lì, perché era l’unica cosa che mi poteva dare i giusti riferimenti. Quindi, anche per me si è trattato di rapportarmi al mio passato culturale, di guardarlo come Menocchio il suo.