Insignito del Pardo d’Onore al 71 Locarno Festival, il regista Bruno Dumont è uno degli autori più dissacranti e fuori dagli schemi degli ultimi anni. Nato a Bailleul nel 1958, nel nord della Francia al confine con le Fiandre, Dumont è stato scoperto al Festival di Cannes che lo ha premiato con due Gran Prix, nel 1999 per L’Humanitè e nel 2006 per Flandres.
Locarno è stata l’occasione per presentare in prima mondiale la sua ultima fatica, la mini serie tv CoinCoin et les Z’Inhumains, e rivedere alcuni suoi film: l’opera prima La vie de Jesus (L’età inquieta, 1997), L’Humanitè, appunto, e il suo ultimo lungometraggio Jeannet, l’enfance de Jeanne d’Arc (2017).
Il 5 agosto il regista ha incontrato spettatori e appassionati in un happening pubblico allo Spazio Forum del Locarno Festival, accompagnato dal direttore artistico della kermesse Carlo Chatrian, per un’occasione inconsueta e libera di dialogo aperto sul suo cinema. In un excursus delle sue opere, Dumont ha risposto alle domande, rivolte da Chatrian e dalle persone in platea, con partecipazione, a volte ironicamente, a volte in modo dissacratorio, ma sempre con estrema onestà e chiarezza su come crea le sue opere e cosa è per lui il cinema.
L’incontro inizia con una domanda di Chatrian che chiede come nasce l’idea per il suo primo lungometraggio.
“Ho scritto una sceneggiatura sulla vita di Gesù molto classica”, spiega il regista francese, “e alla fine il risultato non mi ha soddisfatto come rappresentazione della religiosità, della scontro tra bene e male. Ho riscritto tutto raccontando la vita di un piccolo uomo, descrivendone la vita in provincia con una fine che porta al male e allo stesso tempo dando una luce di speranza. Del materiale originale è rimasto solo il titolo”.
Per Dumont, “l’umanità deve uscire dalla sua animalità, dalla sua bestialità, e il cinema ha un grande valore educativo. Il cinema ha una funzione catartica. Non m’interessa fare cinema per il cinema. Io faccio film per lo spettatore, la relazione con lui è importante. Tutti i miei personaggi sono dei frammenti che devono entrare nella testa dello spettatore e farlo pensare, riflettere. Certo, i miei film hanno un fondo filosofico. Il Bene e il Male non sono separati. Il Bene è nel Male e viceversa. Se non c’è il Male non può esserci il Bene, così come la luminosità è presente dove c’è l’oscurità. E questa dualità è insita nell’uomo stesso, siamo fatti di entrambi questi aspetti”.
Bruno Dumont non è legato al mondo cinematografico, non ha mai fatto scuole di cinema. “La mia cultura è banale”, dice (però è stato insegnante di filosofia, ndr), “ho visto film al cinema e in tv ma non ho studiato cinema”. Afferma di aver visto i film di Bresson a sedici anni – a cui molti lo associano come un autore che ha portato avanti il discorso cinematografico del suo predecessore – ma la cui influenza è stata la medesima di tanti altri registi di film che aveva visto a quell’età. La sua predilezione per gli attori non professionisti in molte sue opere Dumont la spiega con gli inizi della sua carriera in campo cinematografico, quando ha imparato il mestiere girando spot commerciali “per banche e per aziende della grande distibuzione (Leroy Merlin, ndr). Lì ho utilizzato attori professionisti che sono sempre pretenziosi. Forse è colpa mia, ma erano terribili. Poi mi sono fatto raccontare da un venditore il suo lavoro ed era perfetto! Allora l’ho messo davanti alla cinepresa è ho girato con lui”.
Proprio il protagonista di La vie de Jesus, David Douche, come gli altri personaggi del film, lo ha preso dalla strada: “Douche era un ragazzo a cui non interessava affatto il cinema. Ho dovuto faticare a farlo venire sul set in orario per le riprese, era sempre in giro, dovevamo andarlo a cercare. Non gli interessava fare l’attore, ma veniva solo per il denaro”. Poi ricorda che anche Emmanuel Schotté, che interpreta l’ispettore Pharaon De Winter ne L’Humanité, era un ex ufficiale disoccupato che gli segnalano e che trova subito interessante per quello che poteva trarne con la macchina da presa.
“La mdp trasfigura chiunque”, afferma Dumont, “lo spettatore percepisce l’ipersensibilità dell’attore non professionista. A me interessano le persone comuni, così che possa modellarli a mio piacimento, sono come un pezzo di creta su cui lavorare e farne uscire l’emozione. Il suo essere davanti alla mdp è complementare al mezzo stesso in una dialettica con la mdp. L’attore non deve essere cosciente di quello che accade, perché così crea una chimica emotiva con lo spettatore”.
L’utilizzo dei non professionisti ricorda lo stesso spirito che Pier Paolo Pasolini aveva nello scegliere gli attori per i suoi film. E alla domanda da parte di uno spettatore del perché avesse scelto invece una professionista per il personaggio principale di Camille Claudel 1915, risponde: “Perché se parlo di un operaio, scelgo un operaio, se voglio mostrare un contadino prendo un contadino. Camille era un’artista e avevo bisogno di un’altra artista con le sue stesse problematiche, per questo ho scelto Juliette Binoche. E, poi, si assomigliano anche fisicamente. Lei mi faceva un sacco di domande e io le dicevo, non pensare fai come dico io, mettiti davanti la macchina da presa e pronuncia le battute”.
Durante l’incontro, riprende un’altra volta il discorso sugli attori professionisti: “Fanno sempre un sacco di domande, si pongono sempre molti problemi, devono cercare delle motivazioni esterne per poter recitare. Ad esempio, Juliette Binoche per Camille Claudel diceva che si era ispirata al pessimo rapporto con la madre. Per carità, ci vogliamo bene, ma su questo punto non sono d’accordo: nelle varie discussioni che abbiamo avuto le ho sempre detto: Tu hai problemi con tua madre e questo che stai portando nel personaggio. Ovviamente lei negava, ma io rimango della mia idea”.
Dell’avventura americana di Twentynine Palms, l’autore francese racconta che accettò l’invito di girare un film e che era andato in questa località in California per vedere una serie di set. “Abbiamo fatto un po’ di riprese di esterni, ma i soldi sono terminati troppo presto e il produttore non era riuscito a trovarne altri, e quindi siamo tornati a casa. Avevo però tutto quel girato, mi dispiaceva non farne nulla e così ho scritto una storia su un fotografo che deve fare un lavoro in America senza riuscirci e ho riutilizzato il materiale che avevo a disposizione. In realtà, è un film autobiografico”.
Dal pubblico arriva una domanda sul perché utilizza attori con handicap o con malformazioni, riferendo la visione di Coincoin. Bruno Dumont spiega che lui ha avuto sempre a che fare con persone con disabilità. “Ho lavorato molto con loro”, risponde, “sono esseri umani come noi, fanno parte della vita e io riprendo la realtà. Non voglio glorificare i personaggi, io cerco persone ordinarie. È lo sguardo dello spettatore che fa la bellezza”.
Sul suo modo di concepire un film insiste sull’importanza della scrittura e del montaggio.
“Lavoro molto sulla sceneggiatura, sullo storyboard” dice. “Poi dialogo con i tecnici, con i miei collaboratori come con gli attori e gli dico cosa fare. Per l’allestimento del set do la sceneggiatura all’assistente che prepara il tutto, io non ne voglio sapere niente. Ad esempio, per Jeannette avevo delle idee precise sui costumi e i colori, ho spiegato alla costumista cosa volevo, mi ha fatto vedere dei disegni, ho scelto quelli che m’interessavano e poi ha fatto tutto lei”.
Il momento delle riprese è importante ma non è il momento della creazione dell’opera.
“Il tournage è unico, non giro mai due volte” dichiara. “Non m’interessa mettermi dietro la macchina da presa, a fianco, stare sul set. Ne L’Humanité ero a cento metri di distanza in un auto e davo indicazioni agli attori tramite un microfono: come dovevano spostarsi, come dovevano muoversi. L’importante alla fine è il decoupage”. Poi, rivela: “Un giorno il direttore della fotografia mi disse che dovevamo rifare la ripresa perché l’attore guardava sempre in macchina. Ma mi rifiutai, perché la scena era bellissima e lui era eccezionale. Queste sciocchezze si aggiustano in post produzione. In quel caso, durante il montaggio, spostai al computer leggermente gli occhi così da dare l’impressione che l’attore non guardasse in macchina. Sono tutte cose che si possono trattare in quella fase della creazione, così come la luce, il colore del cielo, le nuvole”.
Per Dumont il momento più importante per la creazione dell’opera è “il montaggio: è come essere in fabbrica, lavori lì sulla composizione. Quello che m’importa è l’emozione unica della singola ripresa. Il momento della registrazione della mdp è cruciale, faccio prove prima, ma la ripresa è una sola. L’importante è che l’immagine sia bella”.
L’incontro ha termine, ma Bruno Dumont non se ne va e si ferma a scambiare delle parole con i fan che si avvicinano al tavolo, a firmare autografi sui programmi che le persone gli pongono. Ha un sorriso per tutti e con pazienza si presta all’incontro con quegli spettatori per i quali lui crea il suo cinema.