Menocchio dell’italiano Alberto Fasulo, presentato in concorso al 71 Locarno Festival, racconta un episodio dei processi della Santa Inquisizione nella seconda metà del XVI secolo nelle terre friulane appartenenti alla Repubblica Veneziana.
Domenico Scandella detto il Menocchio, mugnaio di Montereale in provincia di Pordenone, viene accusato di eresia dalla chiesa cattolica. Siamo in piena Controriforma: il Concilio di Trento riafferma la supremazia dei dogmi e del potere temporale di Roma contro le dottrine riformiste di Martin Lutero e di Giovanni Calvino. Tratto da vicende realmente accadute – portate alla luce dallo storico Carlo Ginzburg nel suo saggio Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, studiando le carte dei due processi subiti dall’uomo – Menocchio è un film che mette in scena, con dovizia di particolari, il primo processo ordito dalla gerarchia ecclesiastica, riconoscendo nell’uomo un pericoloso diffusore di idee che instillavano il dubbio del potere temporale dei vescovi e dei cardinali.
L’intento di Fasulo però, con Menocchio, non è solo di raccontare gli aspetti processuali e mettere in evidenza una ricostruzione di un periodo storico di un mondo contadino, in cui la religione era un pilastro della società dell’epoca, ma è, soprattutto, un tentativo (riuscito) di girare un’opera morale dove si parla del particolare per arrivare a rappresentare modalità coercitive tuttora onnipresenti, le cui radici storiche sono radicate nel territorio, nella cultura di un paese e di un popolo e ben riconoscibili. Menocchio uomo diventa così per il regista italiano un’icona del libero arbitrio, della possibilità di espressione delle idee elaborate in autonomia con senso critico, lottando contro il potere – quello della chiesa – che lo vuole sottomesso e ignorante. Del resto, la divisione tra ricchi e poveri, la ricerca del paradiso in terra e non nella promessa di un aldilà fittizio, inventato dalla oligarchia clericale, è l’aspetto più evidente di critica del film. Fasulo parla di un episodio di quattro secoli fa per metaforizzare l’oggi, in cui eretici sono coloro che continuano a riflettere con la propria testa liberamente senza seguire il flusso maggioritario del pensiero dominante. Come allora così oggi è sempre e comunque una lotta tra ricchi e poveri, un esercizio del controllo del potere attraverso “religioni” camuffate da altro.
Nella sua seconda opera di finzione (dopo TIR premiato nel 2013 al Festival di Roma), Alberto Fasulo, oltre ad aver scritto la sceneggiatura insieme a Enrico Vecchi, ha curato anche la fotografia. In Menocchio, il regista lavora sull’illuminazione naturale, utilizzando le luci delle candele per dipingere le ombre sullo schermo secondo dettami caravaggeschi. Durante il primo interrogatorio, Fasulo lascia volutamente avvolti nell’ombra gli uomini dell’Inquisizione, proprio per rappresentarne l’oscurità dell’anima e del pensiero. Così come il protagonista viene rinchiuso in una cella che sembra la grotta di Platone, per affossarne la ragione nel buio dell’intolleranza e dell’ignoranza. La scelta regista di Fasulo è quella di utilizzare sostanzialmente il primo piano come elemento linguistico (ci sono poche inquadrature esterne e totali in interno), così da posizionare la macchina da presa addosso ai personaggi, creando un senso di oppressione e claustrofobia da un lato, ma, dall’altro, sfruttando al massimo i volti degli attori di un’espressività che ricordano la pittura fiamminga. Con Menocchio, quindi, Alberto Fasulo crea un’opera matura dalla doppia valenza contenutistica e formale, in cui lo stile diventa essenziale per l’elaborazione emotiva dei temi trattati.