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71 Locarno Festival: Sibel di Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti mette in scena la storia di una ragazza muta in lotta per la sua indipendenza

Sibel si rivela un'opera di ampio respiro, con una scrittura al servizio delle immagini e della profondità delle psicologie dei personaggi, sorretta da un'interpretazione indimenticabile della giovane attrice Damla Sönmez, che ne fanno un serio candidato a un premio finale del Festival

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Con Sibel della coppia di registi (e nella vita) Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti, il Festival di Locarno continua nel suo discorso sulla libertà con un’altra grande figura femminile, quasi un fil rouge dei film presentati in concorso.

Sibel è una ragazza muta che vive in un villaggio tra le montagne e il Mar Nero in Turchia e parla una lingua fischiata. La coppia di registi franco-turca ha svolto un certosino lavoro, quasi etnografico, trovando il villaggio citato in un libro di linguistica, Kuskoy – che significa “Villaggio degli Uccelli” – dove si parla correntemente questa linguaggio ancestrale composto da un alfabeto di fischi e che si tramanda anche nelle scuole locali. La protagonista ha avuto un maestro del villaggio che le ha insegnato la straordinaria (e originale) forma di comunicazione, così tutti i dialoghi fischiati in Sibel sono corretti e reali.

Sibel (interpretata dalla straordinaria Damla Sönmez, un’altra candidata al Pardo come migliore attrice del Festival) è figlia del sindaco del villaggio, muta dall’età di cinque anni a causa di una malattia, un’altra donna forte che è isolata dai suoi compaesani e anche incompresa dalla sorella minore che la vede come un ostacolo per la propria accettazione nella organizzazione patriarcale turca.

Ma Sibel va oltre allo spazio geografico messo in scena sviluppando temi universali: l’isolamento del diverso, lo sfruttamento del lavoro femminile, il ruolo sottomesso della donna al volere dell’uomo (in questo caso del padre), la ribellione alle convezioni sociali, la ricerca dell’amore vero e non attraverso matrimoni combinati imposti dagli obsoleti costumi locali.

Sibel, oltre a lavorare nei campi e ad accudire il padre (vedovo) e la sorella, quotidianamente va nella foresta armata di fucile a caccia di un lupo che spaventa il villaggio, con la speranza di ucciderlo per affermarsi agli occhi della propria gente e farsi accettare completamente dalla comunità che mal la sopporta, piena di pregiudizi nei suoi confronti (le stesse donne non la vogliono accanto perché temono che il suo mutismo possa essere “contagioso”).

L’inizio di Sibel è fulminante: l’inquadratura di una testa ai raggi x che fischia le parole dell’alfabeto, una messa in scena della mutazione del linguaggio in atto, una transcodifica tra una lingua (quella fischiata) e il linguaggio cinematografico composto da im-segni di pasoliniana memoria. Dopo uno stacco, abbiamo un primissimo piano sulla protagonista in mezzo alla foresta in caccia, con gli occhi ferini, il respiro pesante, i movimenti fluidi e scattanti, una diana selvaggia, una divinità dei boschi, che lega indissolubilmente il personaggio con il paesaggio in cui si muove: la foresta è il genius loci messo in scena, vivente, pulsante, misterioso, così come la natura di Sibel agli occhi degli uomini e delle donne. Sibel incontra un uomo che si nasconde in quei luoghi, un disertore che la aggredisce e si comporta come un lupo. La ragazza ne è prima terrorizzata, ma poi lo aiuta e lo cura, fino a innamorarsene. Quando la sorella la tradisce l’intero villaggio le si rivolta contro, ma lei continua a non piegarsi, con la testa alta contro tutti e tutto, arrivando anche a uno scontro con l’amato padre, fino a intimargli di ucciderla anziché sottomettersi al suo volere e quello della comunità, che la vorrebbe rinchiusa in casa, con il capo coperto, esclusa dalla vita sociale. Sibel lotta durante tutto il film e Çağla Zencirci e Guillaume Giovanetti utilizzano compiutamente la metafora tra immagine e psicologia del personaggio: il lupo non c’è in realtà, Sibel ne trova le ossa, così come l’uomo alla fine scompare. Ma forse lo “spirito del lupo” è proprio rappresentato da quell’individuo che sbuca dalle frasche del sottobosco, materializzazione corporea di un desiderio inconscio di libertà individuale e sessuale della giovane donna. E, forse, Sibel è una “lupa” che dal bosco, dove passa le sue giornate, scende a valle e spaventa gli abitanti per la sua diversità e il fiero cipiglio di affermazione della propria individualità.

La coppia di registi, al loro terzo lungometraggio, riesce ad amalgamare in modo perfetto la forza emotiva della protagonista con una scenografia naturale di rara bellezza, con una macchina da presa sempre in movimento, ma controllatissima, senza alcuna sbavatura formale e oltretutto alternando i primissimi piani sugli gli occhi mobili e pungenti di Damla Sönmez, che bucano letteralmente lo schermo, con i campi lunghi e lunghissimi delle montagne coperte dalla fitta foresta verde, espressione di tutta la potenza esplosiva della natura selvaggia. Sibel si rivela così un’opera di ampio respiro, da una pulsione scopica chiara e ricca, con una scrittura al servizio delle immagini e della profondità delle psicologie dei personaggi, sorretta da un’interpretazione indimenticabile che ne fanno un serio candidato a un premio finale del Festival.

  • Anno: 2018
  • Durata: 95'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Francia, Germania, Lussemburgo, Turchia
  • Regia: Çağla Zencirci, Guillaume Giovanetti

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