“La città invisibile” ci porta a L’Aquila, in una delle tendopoli allestite durante il post-terremoto, dove si sono trattenute alcune famiglie che non hanno voluto alloggiare negli alberghi della costa.
Le tragedie umane e le catastrofi naturali per non essere dimenticate troppo in fretta, finendo di fatto in libri di storia catalogati in qualche archivio ricoperto dalle polveri del tempo, hanno bisogno di rigenerarsi nella memoria collettiva di una materializzazione visiva, un documento non scritto ma fatto di immagini e suoni che sia in grado di ricreare davanti agli occhi della gente quelle sensazioni ed emozioni (traumatiche e atroci) che sono purtroppo destinate a rimanere impresse come cicatrici indelebili. Cosa meglio del cinema può assolvere a questo ingrato ma importantissimo compito? Così il dolore che l’uomo ha causato e continua a causare ai suoi simili, oppure quello che la natura per vendetta infligge agli esseri che la popolano, diventa oggetto e soggetto da imprimere e consegnare sotto forma di testimonianza filmica ai posteri. È il caso di quello che, seppur romanzato e adeguato alle esigenze di sceneggiatori e registi, essendo cinema di finzione trova comunque la sua genesi, per volontà e forza di cose, nella realtà dei fatti (“Tratto da una storia vera”). La stessa realtà che alimenta e che dovrebbe essere, per sua natura, catturata (anche se in tante maniere differenti) senza filtri (anche se qui le ideologie ci mettono molto spesso lo zampino) in opere iscrivibili nel cosiddetto “Cinema del reale”. In questo modo, le guerre, alla pari dei disastri naturali, diventano tasselli dell’infinito (anche se per i Maya poi tanto infinito non è) “puzzle” chiamato Tempo.
Come per ‘quasi’ tutto ciò che è accaduto prima, è venuto allora il momento, anche con riferimento al terremoto de L’Aquila che, in quella maledetta notte del 6 aprile del 2009, ha portato via con sé una scia di morte e distruzione, di mutare registro rappresentativo. Il sopraccitato “Cinema del reale” ha già ampiamente svolto il suo dovere con una serie di documentari (da Draquila a Into the Blue, da Colpa nostra a Sangue e cemento) che, nel bene e nel male, con punti di vista spesso differenti, hanno provato a fare luce e a scavare tra le macerie per non dimenticare ciò che è successo poco più di un anno fa, al contrario della politica e delle tante promesse non mantenute. Tocca al ‘cinema di finzione’ dire la sua sull’argomento e, per cominciare, bisogna accontentarsi de La città invisibile, opera prima di Giuseppe Tandoi che, tra pregi e difetti, trova spazio in un periodo della stagione non particolarmente felice dal punto di vista degli incassi, a causa dello scarso pubblico che affolla le sale nostrane (ed è un peccato perché il 10% degli introiti sarà devoluto al restauro della chiesa di S. Maria degli Angeli). Un titolo, chiaramente d’ispirazione calviniana, che costituisce uno dei punti forti del film diretto dal regista pugliese (ma adottato artisticamente dalla città abruzzese dove ha studiato presso L’Accademia dell’Immagine). Titolo che riassume in maniera perfetta le atmosfere e i contenuti espressi nella storia al centro della pellicola.
La città invisibile ci porta in una delle tendopoli allestite nel post-terremoto, catapultandoci nelle vite di alcune famiglie che, a distanza di soli quattro mesi dalla tragedia, hanno preferito restare, piuttosto che trovare un rifugio più confortevole in qualche albergo della costa abruzzese. In particolare, Tandoi sceglie di affrontare i fatti attraverso gli occhi dei ragazzi del campo, tra lo studio, gli amori e le passioni (la musica), costruendo una sorta di teen-movie catastrofico dalle venature tragi-comiche. Il merito principale dello script, non privo però di difetti e cedimenti strutturali dovuti all’impianto dialogico e narrativo, è quello di aver puntato più sui sorrisi che sui pianti. Lo fa in pieno rispetto e trattando ogni cosa con i guanti, pagando in alcuni casi lo scotto di una facile visione democratica delle cose. Ma, in generale, il film poggia su una sceneggiatura che non si perde in chiacchiere e finta morale, così con gag (divertentissime quelle che vedono coinvolte Gabriele Cirilli e Nicola Nocella), giri di parole e battute celate, prova a puntare il dito contro gli errori commessi e le promesse rimaste tali.
La città invisibile non vuole essere un film di denuncia, né tanto meno un documentario d’inchiesta, ma un’opera semplice e senza alcuna pretesa autoriale, incentrata su un flusso di emozioni che non scadono mai nel piagnisteo collettivo. Nel microcosmo della tendopoli si consumano dinamiche sentimentali (baci rubati e amori contrastati) e piccoli grandi conflitti (la diffidenza nei confronti dello straniero e addirittura la crisi mistica). La galleria dei personaggi, alcuni ben delineati (il nonno interpretato da un fantastico Riccardo Garrone) e altri un po’ meno (l’operaio rumeno interpretato da Leon Cino), prendono forma e sostanza proprio sulla base di queste dinamiche pubbliche e private.
Tandoi da parte sua costruisce una regia asciutta e pulita, che punta all’essenzialità e sull’equilibrio tra storia e messa in scena. Il regista non si dimentica degli attori e li rende parte integrante dell’opera. Il risultato è una recitazione sobria e partecipe, in alcuni casi un po’ troppo, ma per fortuna lontana anni luce da quella stucchevole finta intensità che emerge dalle teen-comedy mocciane.
Francesco Del Grosso
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