Autentico peana del gioco di squadra, non solo nello sport, raccontato con uno stile che evoca la trance agonistica, e al contempo elegia del tempo che fu. La gara, il confronto sportivo come metafora della guerra, la fenomenologia dello showbiz, dei vari entourage legati alle squadre di football, agli atleti, mostrati come esempi della crudeltà della vita.
Ed essendo la storia di una frazione – quella decisiva – di stagione della squadra di fantasia dei “Miami Sharks”, è anche, come si conviene, rappresentazione corale di diverse vicende: c’è l’allenatore stanco e consumato Tony Damato (un grande Al Pacino), i suoi secondi (Jim Brown, una maschera di granitica grinta e Aaron Heckart), la giovane presidentessa ambiziosa Cristina Pagnacci (Cameron Diaz), il quarterback in declino Jack ‘cap’ Rooney (Dennis Quaid), la cui moglie che non si rassegna (Lauren Holly), il quarterback emergente e arrogante Willie ‘alien’ Beamen (Jamie Fox), lo staff medico alle prese con scelte difficili (James Woods e Matthew Modine); e poi ancora da ricordare altri ruoli-figure che completano l’affresco: tra i nomi del numeroso cast: LL Cool J, John Mc Ginley (il giornalista mellifluo e bastardo), Elisabeth Berkley (la prostituta d’alto bordo), Ann Margret (la mamma di Cristina Pagancci) e i camei di Charlton Eston e dello stesso Oliver Stone.
Trame e sottotrame, convulsamente intrecciate con stile nervoso, testosteronico (non solo adrenalinico), fino allo scioglimento con l’epica partita “finale” (esaltante e coinvolgente). Ricco di momenti memorabili (uno su tutti, il più famoso e citato il monologo-discorso alla squadra fatto da Al Pacino prima della sfida decisiva in cui esalta il valore del collettivo).
Ogni maledetta domenica è un film che porta in bella mostra la cifra distintiva del suo creatore. Anche se il protagonista rimane il football, Stone non gli fa recitare boriosi monologhi autoreferenziali, bensì, allargando la prospettiva, dalla cabina del telecronista (di cui subito si impossessa) racconta un melting-pot moderno, prevedibile solo all’apparenza.
Tecnicamente perfetto (la regia e il montaggio sono dinamici, ma non frettolosi, la spumeggiante colonna sonora detta continuamente il ritmo della narrazione; la sceneggiatura insinua insistentemente spunti di riflessione), il film riesce pure a impressionare a più riprese (ma non sempre in senso positivo: una scena in particolare, durante il match finale, è davvero “allucinante”). Non il miglior film del bravo regista newyorkese, ma un buon film sportivo, che offre grande spettacolo e rimane impresso a lungo, per le imprese condotte sul (e fuori dal) campo.