Le aspettative, e i dubbi, erano altissime: perché il personaggio principale è un concentrato di abusi letterari a forte rischio patetismo, perché l’aristocrazia è un tema molto sentito dagli inglesi, perché le trasposizioni si sa, sono sempre molto difficili. Ma l’episodio pilota andato in onda su Sky Atlantic ha passato l’esame: e buona parte della riuscita è indubbiamente merito dell’interprete di Patrick, quel Benedict Cumberbatch che non smette di stupire passando da un ruolo all’altro, che sia uno stregone supremo di un epos a fumetti o un’icona del giallo mondiale.
Nessuno, tranne che lui, avrebbe potuto probabilmente rendere i momenti più sopra le righe del racconto, e solo la sua versatilità ha fatto sì che Patrick Melrose si candidasse a serie cult dell’estate 2018.
Certo da non dimenticare che alla regia troviamo Edward Berger, visto recentemente nel bel The Terror, che ha mano ferma e spazia con facilità da un genere all’altro.
Perché, come si è capito da questo preambolo necessario, il nucleo della storia è sì, sostanzialmente, un racconto di formazione, ma impregnato di uno humor inglese che deve necessariamente stemperare l’altissimo tasso di drammaticità degli eventi raccontati: abusi familiari, droghe, depressione, il tutto filtrato dal tono da biografia che non sfora mai pericolosamente nell’agiografia.
Patrick Melrose parte lieve e noncurante dalla cronaca degli anni ’80, fa balzi indietro e in avanti: la sceneggiatura di Patrick Nicholls adatta e non lesina nulla, sfiorando (e in alcuni casi creando) personaggi incredibilmente tridimensionali pur nella loro – o forse proprio per – inesorabile incapacità di essere amati e di creare la pur minima empatia. E finanche la fotografia, colma di grandeur, si adegua al tono comune del serial: le prime due puntate di Patrick Melrose sanno perfettamente a trasformare la magniloquenza di alcune sequenze in fascino narrativo, riuscendo nell’impossibile impresa di far passare per buono anche il dialogo in voce off.
Certo non è da dimenticare l’imponenza recitativa e il carisma monumentale di Hugo Weaving (il padre di Patrick ragazzo), che affiancato all’ottima prova di Cumberbatch fa passare in secondo piano la poca efficacia di Jennifer Jason Leigh, in ombra pur se quasi sempre in scena con una presenza costante. E non si può fare a meno di tornare ancora una volta sull’ex Sherlock Holmes: che compie una performance assoluta, mentre passa dalla prova quasi “fisica” del pilota a sfumature più sottili in seguito, infondendo intelligenza, colmando la distanza tra umorismo e sofferenza, tra speranza e frustrazione, dall’impotenza all’euforia, sottolineando con uno sguardo o un’impercettibile impressione del viso ogni sommovimento interiore.
Insomma, un comparto creativo di prim’ordine per quelle serie che all’inizio fai fatica a seguire (per la mancanza di empatia di cui sopra, per la labirinticità di alcuni passaggi, per la farraginosità di certe transizioni narrative): ma una volta penetrati nella sua “bolla emotiva”, regala una visione non da poco che sa ritrarre e restituire la forza della sopravvivenza, l’incredibile e inimmaginabile potenza interiore che si scopre quando si arriva fino ai limiti dell’impossibile.
di GianLorenzo Franzì