E’ passato qualche tempo dalla conclusione della storia narrata nella prima stagione di Luke Cage: e alcune cose sono cambiate in maniera sostanziale, come ad esempio il fatto che adesso proprio Luke, prima contestato e ambiguo, ora invece eroe incontrastato di Harlem. E attenzione, è una novità sostanziale non solo dal punto di vista narrativo, ma anche culturale: per la Marvel questo è il terzo confronto con la cultura afroamericana.
Se sui fumetti, la casa editrice di Park Avenue è stata antesignana e precursore con diversi eroi, anche di primo piano, di colore; al cinema e in tv era una piccola barriera ancora da buttare giù. La prima season di Luke Cage aveva messo in campo le carte: ma era stata una soffiata, perché c’era ancora una certa pudicizia nell’argomento e tutto sembrava plastificato.
Probabilmente però il blockbuster (inaspettato e assoluto) Black Panther ha decisamente cambiato le carte in tavola: dettagli e ambientazione ora sono più curati, si scava a fondo con riferimenti precisi ricordando all’America – e al mondo intero, probabilmente – che gli afroamericani, con tutto il background che si portano dietro, sono un vero e proprio soggetto artistico e non tutte macchiette di colore spesso arrabbiati.
Dal punto di vista strettamente narrativo, invece, questo nuovo prodotto Marvel/Netflix è un po’ a metà strada fra gli esordi del connubio e gli ultimi, disastrosi esiti: Luke Cage 2 non è preciso, intellettualistico, elitario e bellissimo come il primo Daredevil, ma neanche confuso e irrisolto come Iron Fist o Defenders. E fa piacere vedere come uno dei fili conduttori, e sicuramente la traccia più visibile che dà coesione, sia la musica: si omaggiano Pete Rock & CL Smooth Songs citandoli nei titoli di pressoché tutti gli episodi, mentre la colonna sonora lega bene scene lungamente dialogiche un po’ à là Bendis – uno degli autori di testi più prolifici, letterari e bravi che hanno messo mano al personaggio sulle pagine dei fumetti negli ultimi dieci anni o giù di lì -, ma purtroppo si sente la mancanza della centralità baricentrica di un villain.
Mancanza che sembra voler essere colmata dai molti assilli filosofici, etici e morali che si gettano addosso al protagonista, senza però riuscire a dargli una reale tridimensionalità. È così che si forma quella aderenza totale tra personaggio – narrativo – e serie – come produzione -: entrambi afflitti da drammi irrisolti, entrambi altalenanti ed entrambi indecisi e riluttanti a prendere su di sé troppa attenzione, restando sempre un passo indietro dal successo e dalla riuscita totale.
di GianLorenzo Franzì