Quando di Steven Soderbergh, mi sono imbattuta, per via dei miei studi universitari, ad analizzare uno dei suoi primi film dal titolo Sesso, bugie e videotape pensai, a priori, che si trattasse della solita “americanata” e che omaggiarlo addirittura dedicandogli un ciclo di lezioni fosse francamente esagerato. Quanto di più lontano dal linguaggio filmico che a me davvero interessa perché in una trama in cui a esser protagoniste sono coppie (forse) innamorate, alle prese con intrighi e tradimenti, visti e rivisti con la lente del voyeur o di altre perversioni, non riuscivo a ipotizzare alcun prodotto a eccezione di un cinepanettone o di una commedia all’italiana di serie b. Poi, dopo aver visto quel film e, nel corso degli anni, tanto altro cinema, mi sono dovuta ricredere fino a comprendere le ragioni per le quali Sesso, bugie e videotape poteva, a buon diritto, esser sottoposto ad approfondimento. La vittoria della Palma d’Oro come miglior film al Festival di Cannes, il conseguimento del Premio FIPRESCI e una candidatura all’Oscar e al Golden Globe per la sceneggiatura, non sono altro che una conferma.
Così, quando ho avuto l’occasione di guardare in lingua originale Unsane, la verifica di una semplicità apparente, come espediente per coinvolgere il pubblico garantendo sempre risultati tecnicamente buoni, è apparsa tutt’altro che incerta. Ora come allora, protagonisti principali, prima ancora degli stessi personaggi e delle storie che vivono, vi sono i temi affrontati da Soderbergh in tutta la sua lunga e prestigiosa filmografia: il sesso imposto e subito, quale chiave di controllo e dominio dell’universo altrui inteso come singolo o collettività, sostenuto da sceneggiature di ferro, del tutto piacevoli nella veste di “testi” letterari tout court, nonostante la presenza di un linguaggio esplicito e di situazioni spesso sgradevoli, ma pur sempre vero, sincero, umano, quindi naturale e non alterabile, se l’obiettivo primario del regista è riprendere la realtà, cioè catturarla e proporla, così com’è agli spettatori. Per realtà si intende anche la mente o l’inconscio delle persone che amano troppo, fino a macchiarsi del reato di stalking, o che non riescono a farlo poiché vittime delle ossessive attenzioni delle prime. Questa è la situazione in cui vive Sawyer Valentini (una coraggiosa e combattiva Claire Foy) costretta a cambiare città e lavoro per sfuggire al suo persecutore. Lascia infatti Boston per la Pennsylvania con l’obiettivo (classico e legittimo) di rifarsi una vita. Tuttavia, la difficoltà a socializzare nell’ambiente di lavoro – dove consuma in solitudine i suoi pasti, rifiuta le avances del suo superiore e non riesce ad avere fino in fondo dei rapporti sessuali con giovani conosciuti tramite siti di incontri on line – la inducono a chiedere aiuto cedendo a quell’atto che la buona società sempre invita a fare per confermare la sua struttura organizzativa imperniata sul sostegno psicologico e materiale di ogni suo membro colpito da un dolore morale, fisico, spirituale.
Così quando Sawyer Valentini si rivolge all’Highland Creek Behavioral Center e afferma riflettendo sul passo compiuto nel parlare, per la prima volta, dei suoi problemi reali e dei suoi mali oscuri, quindi immateriali, come la depressione, l’angoscia : «Perdi il controllo della tua vita, lo sa? Cambiare numero di telefono e la tua email diventa…normale. Richiedere un ordine restrittivo normale, traslocare in un’altra città…normale», l’operatrice che si occupa del suo caso clinico non può far altro che rivolgere una domanda alla quale porre la massima attenzione:« Ma vede ancora il suo stalker ovunque?». Infatti non vi è alcuna prova che Sawyer stia dicendo la verità, sia sana di mente e che abbia davvero subito una violenza terribile quale lo stalking.
Il punto di forza di Unsane è il contrasto tra la gamma infinita di risposte razionali che possiamo fornire comodamente seduti in sala alle situazioni vissute dalla protagonista e il suo tentativo, nonostante i farmaci, i letti di contenzione e le violenze fisiche subite a causa degli altri degenti sottomessi di svegliarsi da un incubo. Sawyer, dopo aver firmato un modulo capestro, acconsentendo ad affrontare una terapia riabilitativa per curare i suoi tentativi ( soltanto pensati) di suicidio, si trova prigioniera di un ospedale psichiatrico da cui è impossibile uscire. Inoltre la presenza, tra il personale infermieristico, del suo stalker, che ha cambiato nome e identità pur di seguirla e averla indisturbato, acutizza il senso di claustrofobia, di impotenza e terrore, fino a farlo confluire lento e inesorabile nelle nostre vene. Fino a rimanerne in effetti paralizzati. In qualsiasi situazione, un personaggio sottoposto alla restrizione totale delle proprie libertà sarebbe tornato ad essere “animale”: ridurre al minimo gli sforzi per risparmiare energie, risultate quasi invisibile per non esser notato, accondiscendere ad ogni genere di ordine dei medici per testimoniare mansuetudine sono regole non scritte delle complicate relazioni tra vittime e carnefici. Sawyer, al contrario, non fa altro che trasgredire gli ordini, ingollare farmaci sempre più calmanti e potenti nell’alterare la sanità della sua psiche. Ma tra lei e lo stalker David, ribattezzatosi George Shaw, chi è sul serio “insane”? Tra flashback, immagini distorte nella mente della protagonista, omicidi, cadaveri occultati, classici sogni di focolari domestici in baite isolate, tra tappeti sonori di foglie ormai secche, da rilevare è la piccola parte affidata a Matt Damon per preservare l’identità violata della protagonista. I continui divieti a condividere, mostrare, taggare, apparire nei contenuti altrui mostrano quanto siamo vulnerabili e nelle mani di meccanismi che dopo aver sottratto subdolamente i nostri dati sensibili (perché fatti della stessa sostanza dei nostri sentimenti e sensi) li ripropongono, esponendoli in pubblico fino a farci rischiare il tracollo dei nervi.
Nell’unica scena di cui Damon è protagonista, la stoccata politica è evidente, ma si badi a non cadere nella demonizzazione della tecnologia e delle sue potenzialità. Soderbergh, infatti, per girare il film, ha utilizzato tre iPhone 7 Plus, in modo da avere riprese video in 4K, dotati dell’app FiLMiC Pro, in grado di controllare più dettagliatamente la velocità dell’otturatore, l’esposizione, e la temperatura del colore e il fuoco. Esattamente come ai tempi degli esordi, quando realizzava cortometraggi con materiali di fortuna o attrezzature affittate, anche questa volta non si è servito di mezzi cinematografici propriamente detti, evidenziando che quando la forma e il contenuto sono ottimi di per sé, i risultati non possono esser da meno. Anzi arrivano a riecheggiare capolavori della Storia del cinema come Gaslight (Angoscia) diretto magistralmente nel 1944 da George Cukor ed interpretato da un’intensissima Ingrid Berman in stato di grazia.