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L’albero del vicino, la recensione del film di Hafsteinn Gunnar Sigursson

Alla domanda se sia possibile mettere in scena un film sulla fine del mondo senza l’utilizzo di effetti speciali e sottraendo lo spettatore alla solita ecatombe di vite umane si potrebbe rispondere invitando alla visione de L’albero del vicino, il nuovo lungometraggio di Hafsteinn Gunnar Sigursson, candidato all’Oscar per il miglior film straniero

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Alla domanda se sia possibile mettere in scena un film sulla fine del mondo senza l’utilizzo di effetti speciali e sottraendo lo spettatore alla solita ecatombe di vite umane si potrebbe rispondere invitando alla visione de L’albero del vicino, il nuovo lungometraggio di Hafsteinn Gunnar Sigursson, candidato all’Oscar per il miglior  film straniero. Trattandosi di un film proveniente dall’Islanda, la storia del conflitto tra vicini di casa scaturito da futili motivi non renderebbe merito, per la numerosità dei precedenti, alle caratteristiche di una cinematografia capace di distinguersi per la stralunata particolarità  delle sue narrazioni.

In effetti, con L’albero del vicino, pur essendo il risultato di un contesto umano e sociale a dir poco unico, con l’alienazione dei personaggi che sembra la diretta conseguenza dell’isolamento geografico del territorio islandese, appare chiaro che l’intento del regista è fare di questo microcosmo un campione esportabile in ogni dove, per il fatto di ricalcare per filo e per segno il non senso della follia che attanaglia il genere umano. Senza causa apparente, che non sia quella della mancata potatura dell’albero colpevole di nascondere il sole all’abbronzatura della bella Eybjorg, il battibecco tra le parti in causa si trasforma in una guerra senza esclusioni di colpi, la quale, senza volerlo, finisce per coinvolgere anche coloro – persone e animali – che gli sono estranei.

Seppur sotto forma di metafora, L’albero del vicino ha dunque l’ambizione di preconizzare le sorti dell’intero ecumene. Per farlo Sigursson utilizza un minimalismo scenico e concettuale opposto alla grandeur delle intenzioni dichiarate in premessa: sulla carta personaggi e ambienti ridotti al minimo, scarso movimento della mdp, dialoghi che volano basso, mantenendosi sempre su livelli di anonima ordinarietà, non farebbero mai far pensare all’escalation di mestizia e brutalità che attendono l’ignaro spettatore. L’arma vincente, come si diceva, non ha niente a che vedere con questioni di opulenza visiva, bensì con la predisposizione a lavorare sulle psicologie dei personaggi, incalzati da un crescendo di nevrosi e situazioni tragicomiche (alla maniera di certo cinema scandinavo, per esempio di quello di Ruber Ostlund), che il montaggio di Kristjan Loamfiara mantiene sempre sopra il livello di guardia. Da non sottovalutare, nella considerazione complessiva dell’opera, le interpretazioni a fior di pelle dell’intero cast. Consigliato

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