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Conversation

L’illusione della fuga: intervista ad Andrea Di Iorio, regista di Senza distanza

Sempre più spesso il cinema dei nuovi autori italiani torna alla radici della nostra storia politica sociale e culturale mettendola in discussione e riscrivendola secondo differenti punti di vista. Come Alice Rohrwacher, Paola Randi, e questa settimana Cosimo Terlizzi, anche Andrea Di Iorio con Senza distanza racconta la realtà e, in particolare, quella  della vita di coppia attraverso una favola dal sapore dolce amaro

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Partiamo dall’incipit: quello di Senza distanza è molto particolare perché parte dalla frequentazione di un B&B in cui ogni stanza corrisponde a una città del mondo e quindi con un proprio fuso orario che impedisce alle coppie frequentatrici di vedersi se non per pochi momenti. Da dove viene questa idea?

La genesi è particolare. Tornavo da un viaggio all’estero che mi aveva fatto nascere il desiderio di girare un film in diverse parti del mondo, cosa di per sé irrealizzabile. Da qui è nata la riflessione sul fatto che ognuno di noi ogni tanto vorrebbe andarsi a rifugiare in una di queste città per scappare dai problemi. Quindi mi è venuta in mente la metafora della camera con il telo dietro la finestra che rappresenta la città dove si vuole andare. Da una parte è evidente che si tratta di un’illusione e di una fuga momentanea, per contro, una cosa del genere fa pensare al fatto che l’unico modo di risolvere i propri problemi è quello di affrontarli restando nel mondo reale. A questo si è unito al discorso sul matriarcato che però veniva invece da un’idea precedente.

La forma del tuo film, il fatto di averlo girato in un unica location, all’interno e all’esterno della stesso ambiente, era un elemento preesistente o in qualche maniera è nato tenendo conto delle risorse a disposizione?

La tua è una domanda giustissima perché mi permette di dire che il film sarebbe stato sempre quello, indipendentemente dalla qualità del budget. Da sempre sono appassionato di un cinema di impostazione teatrale: non nel senso che si rifà al teatro ma ad autori come Polanski in cui i conflitti nascono dall’interazione di persone di differente carattere, costrette all’interno di spazi ristretti. Quindi  la contrazione dello spazio e del tempo mi serviva per ricreare questo tipo di situazione. Allo stesso modo ho adorato anche un cinema ti tipo opposto, finalizzato all’evasione e allo spettacolo e ambientato in tanti luoghi del mondo. Senza distanza rappresenta anche il tentativo di  conciliare questi opposti con le esigenze di budget che avevo nel momento in cui mi sono convinto a farlo.

Hai girato in otto giorni. Quali sono state le sfide che hai affrontato in fase produttiva e poi sul set?

È stata una sfida vera, con un lavoro più che triplicato rispetto alle normali riprese. Alla base di tutto c’è stata la fiducia tra me e attori rispetto al testo iniziale. Ci vuole quindi una grandissima collaborazione e c’è bisogno – com’è successo con le persone che stavano con me – di diventare una sorta di grande famiglia. Solo con un unisono del genere si può riuscire a girare in tempi cosi ristretti. Comunque, per prima cosa bisogna avere degli interpreti molto bravi, in grado di capire in un batter d’occhio il senso della sceneggiatura e la maniera di valorizzarla, mettendola in scena con pochi ciak. La seconda, invece, è relativa alla regia e ha a che fare con il minimalismo dei movimenti di macchina perché preparare una carrellata richiede tempo e persone. Anche in questo caso però non ho dovuto forzarmi perché mi piace un tipo di messinscena in cui la presenza del regista si sente solo laddove è necessario. Io preferisco – come dice Francis Ford Coppola – muovere la scena dall’interno, facendo si che siano i personaggi a spostare l’inquadratura e non viceversa.

Immagino che gli attori siano arrivati sul set sapendo esattamente cosa dovevano fare, però ti chiedo quanto spazio hai lasciato all’improvvisazione.

Guarda, abbiamo fatto solo una breve lettura del testo il giorno prima delle riprese, però avevo parlato molto con gli attori in fase di preparazione, confrontandomi con loro su storia e personaggi. Sul set sono stati bravissimi a cogliere subito alcune sfumature e improvvisando solo dopo esserci confrontati sulla necessità di farlo. Questa collaborazione ha portato vantaggi e migliorie di cui il film si è avvantaggiato.

La sensazione era quella di una spontaneità che lambiva le esperienze personali degli attori. Forse è scontato sottolinearlo, ma i tempi della realizzazione possono aver accentuato questo processo di immedesimazione? 

Si, credo che ciascuno abbia inserito qualcosa della loro sensibilità personale. Tutti si sono sentiti vicini alla sceneggiatura: non solo degli attori ma anche la troupe che era sempre pronta a condividere idee sui modi di vivere di cui si parla nel film. Credo che dipenda dagli argomenti affrontati poiché chiunque nel corso dell’esistenza ha gioito e sofferto per gli stessi motivi dei personaggi.

Nel film si affrontano temi che sono ancora dei tabù come quello di poter amare contemporaneamente due persone. Di solito i film giovanilistici affrontano questi argomenti in superficie mentre i tuoi sono innanzitutto personaggi esistenziali.

Sono personaggi che riflettono in continuazione. Come dicevi è una cosa che ci riguarda anche in termini di rinunce. A noi piace sentire discorsi come quelli di Gaia che ci fanno conoscere qualcosa di nuovo e di mai sperimentato; aspiriamo a raggiungere un certo tipo di libertà. Allo stesso tempo abbiamo dentro un vissuto che ci impedisce di smettere di essere gelosi e possessivi. Dobbiamo prendere coscienza che è difficilissimo tornare indietro dall’educazione che ci è stata trasmessa. Per Gaia è più facile perché, come dice, essere cresciuta con due zii non l’ha abituata ad avere una sola figura maschile di riferimento, ma anzi gli ha permesso di contemplare la possibilità di amare due persone. Detto questo, è importante ascoltare opinioni diverse proprio per mettersi in dubbio e per cercare di accogliere certe scoperte: almeno fino al punto che ci è permesso.

Mi pare che il film si soffermi sull’importanza dei rapporti di coppia in un momento in cui il tema più dibattuto è quello relativo all’identità sessuale. Senza distanza ci ricorda che le dinamiche relazionali tra due amanti sono altrettanto importanti.

Mi fa piacere sentirtelo dire perché è come se il film tornasse indietro, alle radici e al punto dove tutto è iniziato.

Sì perché l’attualità di un argomento come quello delle identità sessuali e delle questioni di genere rischiano di far dimenticare quanto sia importante occuparsi delle dinamiche della vita di coppia.

Senza distanza parla di come siamo arrivati alla vita di coppia e al discorso di monogamia e di fedeltà. È qualcosa su cui non si sofferma abbastanza.

Con il modo in cui giri, e mi riferisco sia alluso delle luci che alla ripresa degli spazi, è chiaro che vuoi fare cinema e non teatro filmato. Credo, però, che la dialettica che stabilisci tra il dentro e fuori del B&B non nasca da motivi estetici quanto, piuttosto, dall’intenzione di restituire la dimensione esistenziale dei protagonisti. In particolare di fare dell’ambiente esterno lo spazio della riflessione rispetto a quello delle affermazioni e della volontà rappresentato dagli interni.

Hai colto in maniera esatta un aspetto su cui ho lavorato di più, e cioè sulla dialettica tra esterno e interno. Diciamo che l’interno è – come dice Libero, il proprietario del B&B – lo spazio della finzione e del teatro, quindi anche della menzogna: con quest’ultima riflessa sia nel concetto con cui sono pensate le camere, che alla fine sono un po’ delle bugie, quanto nell’ipocrisia delle coppie protagoniste. L’esterno, localizzato dal parco che circonda la casa, è il luogo della naturalezza e della libertà di stare da soli. È anche per questo che i personaggi vi camminano quasi sempre senza alcuna compagnia. Oltre al fatto che è li che sembrano trovare pace alle questioni che li tormentano ed è sempre li che risiede la quiete adatta per iniziare a riflettere. Ho lavorato molto sul contrasto tra la bellezza del paesaggio, delle piante e dei fiori e la teatrale artificialità degli interni, enfatizzata dal posticcio di queste camere a tema.

 

In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare” di Henri Laborit è la frase che apre Mediterraneo. Senza distanza è attraversato da un desiderio di fuga che confluisce nella ricerca di un altrove esistenziale o lavorativo. Mi sembra che tu metta questi due aspetti sullo stesso piano, voglio dire che i sentimenti e le necessità dello spirito valgono quanto le questioni pratiche.

Ricordo sempre la canzone di Gaber che diceva più o meno “far finta di essere sani, il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani”. Penso a questo perché fuggire seguendo il sogno lavorativo può essere importante soprattutto se ne siamo costretti per motivi economici. Però è anche vero che esiste la dimensione personale e delle relazioni con gli altri che va comunque risolta in loco altrimenti c’è la portiamo dietro ovunque andiamo. Non si può fuggire da se stessi e bisogna lavorare sulla propria psicologia. Quindi ciò che hai notato è giustissimo perché per me è molto importante la dimensione psichica dei personaggi, quello che il vissuto ha creato nelle loro teste, nel loro modo di ragionare e di vedere la vita. Prima ancora di quasi altro problema lavorativo e per vivere più sereni secondo me è fondamentale analizzarsi, ragionare sulla propria psicologia. Credo poi che la dimensione relazionale intesa come vita di coppia sia uno degli aspetti fondamentali di ognuno di noi perché se quello non funziona si è infelici. Freud metteva al centro della vita il lavoro e l’amore. Se uno dei due non va, tutto si trasforma in tragedia.

Attraverso il personaggio di Marco arrivi a dire che il lavoro è importante ma non così tanto da sacrificare la dimensione personale, quella in cui si ha modo di esprimere le nostre passioni. Mi pare un’affermazione condivisibile e coraggiosa in un momento di grande precarietà lavorativa.

È un dramma di cui non si parla abbastanza. Si parla del lavoro come raggiungimento finale, però effettivamente non rimangono ore per vivere e per avere i propri spazi personali, a meno che non si faccia uno di quei mestieri da sogno in cui ciò che si fa corrisponde alla massima aspirazione, cosa che però è destinata a essere un eccezione in un panorama dove la condizione abituale è quella di Marco, l’ingegnere interpretato da Giovanni Anzaldo. Per scriverlo mi sono ispirato agli amici di Campobasso, la regione da cui provengo, perché anche loro, in quanto ingegneri, hanno sofferto sulla loro pelle il fatto di un lavoro che non gli lasciava il tempo di respirare. Bisognerebbe porsi in una prospettiva diversa da quella in cui la vita coincide con il lavoro, magari provando a immaginare impegni distribuiti su un minor numero di ore.

In un tempo in cui l’esistenza è per lo più leggitimata da parametri di tipo materiale, affermare l’importanza della dimensione sentimentale su quella lavorativa fa di Senza distanza un film politico.

Si e mi fa molto piacere che sia così. In questo Senza distanza risente di un tipo di pensiero e di cinema – anche italiano – degli anni ’60 e ’70 che adesso non c’è più. Penso a registi come Petri, che era politico e impegnato, ma anche molto psicologico e attento all’aspetto umano, diversamente da adesso dove mi pare che la tendenza sia quella di restare sempre in superficie. Si affrontano le tematiche importanti ma non si va veramente a fondo. Avere scritto e diretto questo film risponde all’esigenza di raccontare una storia vicina all’esperienza delle persone eppure raramente portata sullo schermo. Il cinema dovrebbe raccontare i problemi che ci riguardano da vicino e proporre idee e soluzioni. È uno dei compiti della settima arte.

Parlando con Paola Randi si notava come nel nostro cinema d’autore si lasci sempre più spazio ai sentimenti. Fino a qualche tempo fa la trattazione della sfera affettiva sembrava sminuire il valore di un’opera, ora invece pare ci sia un’inversione di tendenza.

È vero. È giusto che il nostro cinema rifletta su ciò che viviamo, e al pubblico farà piacere sentirsi preso in considerazione attraverso questo punto di vista. Dopo le proiezioni mi sono reso conto che gli spettatori si sentivano vicini alla storia che avevano visto, come se ognuno di loro avesse vissuto qualcosa che ha ritrovato nel film.

Nel tuo film si sta accanto ai personaggi per le analogie con il nostro vissuto, ma ancor più per le intenzioni che non siamo riusciti a concretizzare. Le scelte poste in essere dai personaggi in qualche modo portano a termine ciò che avevamo lasciato incompiuto.

E si, perché tutti vorremmo ambire a essere sereni come Gaia che, rispetto agli altri, riesce a godersi la vita. È un peccato che essa venga rovinata dai compromessi e dall’idea di un sacrificio e di una sofferenza che, come dice Gaia a Nina, non ha alcun motivo di essere. C’è l’idea che il sacrificio porti a un miglioramento, invece il risultato è maggiore dolore e manipolazione. Senza distanza è un invito a essere più sereni e rilassati per gioire della vita, rivalutando il discorso sentimentale e lavorativo, e riflettendo su quanto serva lavorare se poi non si ha il tempo e forza di spendere il denaro guadagnato. È doveroso ripensare a concetti che ci sono stati imposti dalla nostra cultura e che però – oggi possiamo dirlo – non ci portano alla felicità.

La sofferenza come viatico di salvezza è un concetto trasmessoci dalla cultura cristiana.

Quella è una delle origini. Il sacrificio e la sofferenza come viatico per costruire qualcosa deriva anche da quello. Già quando si sta costruendo qualcosa è in atto un compromesso. Impegnarsi a salvare il rapporto equivale ad ammettere che è già venuto meno il desiderio e che si sta dicendo una bugia.

I colori caldi della fotografia sembrano una reazione a questa sofferenza.

Questa affermazione mi rende molto felice, perché tra le altre cose ho riversato grande importanza alla cura delle fotografia con la quale volevo comunicare un’idea di piacere. Mi rifaccio a una delle interviste rilasciate da Woody Allen e all’affermazione per cui la scelta di toni caldi rispetto a quelli freddi rende i film simili a una comoda poltrona. È una frase che amo perché mi piace l’idea di restituire la bellezza e il piacere della vita. Se il cinema riesce a essere più bello della realtà ben venga! Sono contrario al cinema sofferto e al minimalismo a tutti i costi. I grandi classici hollywoodiani stavano sempre attenti a non creare immagini brutte.

Più o meno è la stessa cosa che mi ha detto Lucchetti rispetto a Io sono Tempesta, in cui ha trattato temi drammatici sovvertendo i toni con cui generalmente si affrontano le problematiche più complesse del nostro tempo.

In quel caso lo si fa come lo faceva la commedia all’italiana, dove la sofferenza dei personaggi era resa con la forza dell’ironia e del tragicomico in un mix di toni che funzionava alla perfezione e a cui dovremmo sempre continuare a guardare. In questo senso sono d’accordo con Lucchetti.

Nei titoli di testa accenni alla società matriarcale come forma originale dei primi nuclei familiari. Mi pare che nel corso della storia tu ne faccia indirettamente riferimento assegnando ai personaggi femminili il compito di rompere gli indugi e di mettersi alla ricerca della felicità. Sono loro nel film a mettere in discussione i traguardi già raggiunti, nonché a fare da collante per gli altri membri della famiglia come vediamo nel finale.

Certo, perché trovo che la donna sia il fulcro dell’esistenza da cui tutto deriva. Se dal pater con il suo seme generatore ci si sposta alla mater, intesa come terra e come materia rigenerante, la donna diventa fautrice di vita e di cambiamento. A un certo punto Gaia dice che l’uomo con il patriarcato è voluto scappare dalla consapevolezza di dover ritornare alla madre terra. Rispetto alla ciclicità della vita abbiamo voluto sognare un eternum che continuasse all’infinito. Invece, se torniamo al punto di vista della donna, e quindi della terra, bisogna accettare anche l’idea della fine di un ciclo. Secondo me la donna fa paura proprio perché ci ricorda la finitezza del ciclo vitale e quindi la nascita ma anche la morte. Volevo spostare tutto su qualcosa di cui non si parla abbastanza che è alla base di tutto questo.

Per quanto riguarda gli attori, bisogna dire che sono tutti molto bravi, a cominciare da Giovanni Anzaldo e Lucrezia Guidone, folgorante nell’esordio diretto da Francesco Bruni, ma parlo anche di Elena Arvigo e di Giulia Rupi. Sul perché hai scelto attori teatrali mi hai in parte risposto, parlando della necessità di prendere interpreti bravi e capaci, però ti chiedo di dirmi qualcosa di più rispetto alla loro presenza nel tuo film.

Quando vidi Noi quattro e Il capitale umano rimasi colpito dalla bravura di Lucrezia e Giovanni. Amo gli attori perché per me sono fondamentali. Il cinema oggi sta diventando poco dialogico e gli interpreti vengono scelti solo per la loro faccia, mentre per me sono invece legati alla sceneggiatura. La stessa folgorazione lo avuta per la Arvigo, che ha iniziato con Sthreler, ha fatto un film con Gazzara e poi  ha lavorato molto all’estero, e così per la Rupi, che avevo visto a Teatro. Per la scelta degli attori parto sempre dai loro lavori precedenti, mi innamoro di loro e poi sento il bisogno di volerli sul set nel desiderio di vedere come riescono a dare vita alla sceneggiatura. D’altronde adoro il cinema di Cassavetes e Wilder per come usano dialoghi e attori e, non per niente, ritengo che in questo tipo di cinema il maestro sia Allen al quale guardo da sempre. Tra l’altro, mentre mi trovano a New York per la proiezione del mio film nell’ambito di un festival indipendente, volevo lasciargli il dvd di Senza distanza e così facendo, per caso, sono riuscito a darglielo di persona mentre stava uscendo da casa. Se lo è messo in tasca e mi ha ringraziato. È stato un bel momento!

Sul set come hai interagito con loro?

Credo che una parte della regia sia già nel testo. Un bravo attore vi ci trova già una direzione da cui partire. Poi quando si va sul set è fondamentale mettere tutti a proprio agio e intervenire solo se c’è qualcosa che non va. Un po’ come fa Allen che corregge il minimo indispensabile. Lui ha ottenuto interpretazioni straordinarie lavorando in sottrazione e permettendo agli attori di lavorare sul testo. Poi, per carità, ci sono anche registi che fanno 60 takes come Fincher, però anche Scola diceva che dopo 3/4 ciak l’attore ha già dato tutto. Stressate gli attori è controproducente. L’agitazione si trasmette e questo non è bene per i risultati del film.

Ti piace il cinema di Ciro de Caro? Te lo chiedo perché penso ti possa piacere sia a livello produttivo che per ciò che riguarda la messa in scena.

Si, penso che Spaghetti Story abbia dato a noi altri registi la consapevolezza di poter fare cinema e arrivar nelle sale anche con mezzi ristretti. Certo, questa non deve essere la condizione ideale però è importante sapere che si possa girare e sperimentare anche con budget minimi. Detto questo, io volevo fare il miglior film possibile con quello che avevamo, senza dare a tutti i costi una connotazione indipendente al mio lavoro.

Ti rivedremo presto sugli schermi?

Guarda, me lo auguro. Ho un altra sceneggiatura pronta. Sarà un film sempre focalizzato sulla distanza tra le persone in rapporto alle barriere che ci creiamo, ma questa volta un ruolo importante lo svolgeranno le nuove tecnologie che generalmente tendono a isolarci.

Per il momento stai presentando il film a Roma. Lo vedremo anche in altre città?

Superato lo scoglio dell’estate cominceremo un tour che inizierà dalle città del nord per poi raggiungere quelle del Sud.

  • Anno: 2018
  • Durata: 73'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Andrea Di Iorio
  • Data di uscita: 07-June-2018

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