Chinatown è un film neo-noir del 1974 diretto da Roman Polański, con protagonisti Jack Nicholson, Faye Dunaway e John Huston. Si tratta dell’ultimo film americano del regista polacco, successivamente tornato in Europa. La pellicola costituisce un omaggio al giallo hard boiled, specialmente a quello californiano di Raymond Chandler, con personaggi che ricalcano quelli tipici del genere: il detective, ex-poliziotto cinico ma in fondo idealista (Gittes), la dark lady ambigua e sensuale (Evelyn Mulwray), il potente patriarca con gli scheletri nell’armadio (Noah Cross), la polizia corrotta e politicamente controllata, i quartieri etnici (Chinatown). Il film è ispirato alle California Water Wars, storici contrasti che si sono tenuti sui diritti di acqua e terreni nella California meridionale negli anni dieci e venti, durante i quali William Mulholland assicurò i diritti d’acqua nella valle di Owens, e quindi a Los Angeles. Il film ha ottenuto 14 candidature e vinto un Premio Oscar (Miglior Sceneggiatura a Robert Towne), 7 candidature e vinto 4 Golden Globes.
Sinossi
Ingaggiato per una questione di infedeltà coniugale, il detective Gittes si accorge di essere in realtà lo strumento di una macchinazione ai danni di un funzionario comunale che ha scoperto un traffico illecito di acqua della rete pubblica. L’uomo viene ucciso: la moglie di questi aiuta Gittes, ma alla fine viene eliminata dal padre, il potente Noah Cross, responsabile di tutto il complotto.
Col passare degli anni, Chinatown si è imposto come il capolavoro di Roman Polanski. È un “neo-noir” di forte suggestione che rivisita gli archetipi del cinema nero anni Quaranta senza cedere ad uno sterile esercizio di stile in chiave “rétro”. La novità principale rispetto ai vecchi film noir è l’utilizzo della fotografia a colori, mentre il legame più forte con quel tipo di cinema è la presenza di John Huston (superbo nel ruolo del corrotto capitalista Noah Cross), che fu il regista di The maltese falcon nel 1941, uno dei più illustri prototipi del genere. La sceneggiatura di Robert Towne, premiata con l’Oscar, è considerata da molti critici una delle migliori del cinema anni Settanta: indubbiamente complicata nello sviluppo narrativo (forse per omaggiare quella, ancor più inestricabile, de Il grande sonno di Howard Hawks) ma ricca di notazioni caustiche su una società americana di fine anni ’30 corrotta fino al midollo, dove la violenza è penetrata perfino nell’istituzione familiare, con risvolti tragici perfettamente adeguati che danno luogo, soprattutto nel finale, a sequenze di grande forza espressiva. La colonna sonora di Jerry Goldsmith gioca abilmente sull’effetto-nostalgia, ma gran parte del merito dell’eccezionale riuscita del film va alla coppia di attori, un Jack Nicholson che riesce a conferire un inedito spessore psicologico al personaggio dell’investigatore privato J.J. Gittes senza rinunciare al suo nascente carisma divistico, e una Faye Dunaway perfetta nel ruolo della donna fatale che nasconde inquietanti scheletri nell’armadio, con tutta una serie di rimandi a dive del passato fra cui il più diretto è forse quello alla Marlene Dietrich, ma comunque molto efficace, particolarmente sul registro drammatico. Roman Polanski è riuscito a coordinare brillantemente i vari apporti tecnici, ma se il film tocca le vette della genialità, è grazie soprattutto all’incisività della sua regia, perfetta nella gestione del ritmo, nella scelta delle inquadrature e nel montaggio e attraversata da una costante inquietudine (come nel precedente Rosemary’s baby), probabilmente ancor più accentuata dalle tristi vicende personali legate all’uccisione di Sharon Tate.