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La libertà del cinema: intervista a Paola Randi, regista di Tito e gli alieni

Il nuovo cinema italiano è anche la libertà di fare un film di fantascienza come Tito e gli alieni, che ce ne offre una versione mai vista dalle nostre parti. Ne abbiamo parlato con la regista Paola Randi

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Voglio iniziare dalla sequenza iniziale, che parte dai titoli di testa e si conclude sul campo lungo del protagonista appisolato sul divano. A parte la pulizia del segno, tutto è giocato dalla sovrapposizione tra cielo e terra. È un inizio molto forte.

Ti voglio dire una cosa che non avevo ancora raccontato: insieme a Matilde Barbagallo stavamo percorrendo le highway alla ricerca delle location. Mentre riprendevo ho girato casualmente la mdp e mi sono accorta che quella sarebbe stata l’inquadratura giusta per iniziare il film, poiché l’immagine del mondo alla rovescia corrispondeva alla perfezione al contesto del film così com’è determinato dal messaggio del padre dei bambini. Si trattava di mettere lo spettatore nella condizione di essere lui stesso un alieno rispetto al mondo dei personaggi. E allora ho capito anche che il rapporto tra cielo e terra era fondamentale non solo nella sovrapposizione tra la via lattea e l’autostrada ma anche nel formato da adottare. La scelta del 4:3, tipico della vecchia Hollywood, nel suo rapporto tra alto e basso mi consentiva di riprodurre sul piano visivo la dialettica tra cielo e terra. Così, se la prima parte è incentrata sullo stato d’animo del protagonista, con l’occhio della mdp rivolto al personaggio, quando lo stesso entra in azione la prospettiva cambia, aprendosi verso l’esterno ed esaltando le caratteristiche di questo formato.

Tito e gli alieni è ricco di contenuti, ma per un regista italiano fare un film di fantascienza significa affrontare la sfida di riprodurre la meraviglia propria del genere in questione. Tu riesci a vincerla anche in virtù di soluzioni formali adeguate, come quella provocata dal contrasto tra il formato 4:3 e la profondità di campo di certe riprese, soprattutto di quelle dall’alto. Questa circostanza ti permette di riproporre sul piano visivo il rapporto tra finito e infinito che riguarda l’esperienza dei protagonisti, costretti da una parte a fare i conti con il finire delle cose, dall’altra, a confrontarsi con le infinite possibilità dell’universo.

In realtà si tratta di un formato di grande respiro. Oggi viene utilizzato per stare più vicino ai personaggi e per escludere il resto del mondo. Invece no, come ci insegnano i classici del cinema americano i campi lungi con il formato 4.3 hanno un respiro straordinario e permettono di guadagnare in altezza e profondità ciò che si perde in larghezza. Proprio perché nella fantascienza c’è bisogno di grandi mezzi, io ho cercato di sfruttare tutti quelli che avevo a disposizione secondo la lezione di Melies, il quale paragonava il mestiere del regista a quello del prestigiatore. Quindi ho cercato di unire e valorizzare la fotografia, le riprese, il formato, gli effetti digitali, per proiettare lo spettatore in un mondo diverso dal suo. Poi se parliamo dell’inizio, ciò che si vede è anche la mia maniera di presentarmi e di dire a chi guarda di rilassarsi e di seguirmi, facendo leva sulla sua passione cinematografica.

A proposito del formato 4:3, non so se hai notato che oggi viene utilizzato come fosse una scoperta dei nostri giorni, sinonimo di grande modernità, mentre invece c’è sempre stato.

Come dicevo sopra è il formato delle origini, utilizzato dalla vecchia Hollywood fino all’avvento della televisione, che se ne servì come modello per i suoi prodotti. Ed è proprio per  la necessità di differenziarsi da quest’ultima che il cinema ha pensato di allargare le immagini dei film. Anche in questo caso però la televisione si è adeguata, e quindi siamo arrivati a un momento di felicità assoluta in cui possiamo giocare con i formati come meglio crediamo. Questa libertà è un privilegio che in passato i registi non hanno avuto.

Tu metti al centro della storia una doppia elaborazione del lutto: da una parte il professore, segnato dalla scomparsa della moglie, dall’altra, Tito e la sorella reduci dalla morte del padre. Accostare il dolore degli adulti a quello dei bambini può essere anche il modo di affermare che almeno sul piano dei sentimenti la diseguaglianza non esiste e che è proprio da questi che bisogna ripartire per ritrovare la concordia sociale?

In realtà è la proposta di abbandonare il cinismo e di iniziare a comunicare. Dato che il lutto – esperienza da me vissuta più di una volta – è una cosa che sconquassa profondamente gli equilibri interni e mette in crisi il rapporto con gli altri, la cosa che mi interessava era esplorare le tecniche di sopravvivenza e gli antidoti utilizzati per combattere il dolore della perdita nel tentativo di riattivare i canali di comunicazione. Credo che gli essere umani siano unici e irripetibili, ma allo stesso tempo pieni di cose in comune: la perdita, il lutto, ma anche i rapporti umani ci riguardano tutti, quindi alla fine si tratta di trovare una chiave di comunicazione come il bambino cerca di fare: quando dice al personaggio di Mastandrea di farlo parlare con il padre in realtà richiede allo zio di diventare il suo nuovo genitore.

Non a caso la scena in cui Mastandrea accetta questo ruolo è quella in cui lo vediamo parlare al telefono con il fratello. Si tratta di una sequenza davvero commovente.

Pensa che quella scena nasce dalla riscrittura del finale, avvenuta direttamente sul set. È una cosa che mi è successa anche con il monologo conclusivo di Alfonso in Into Paradiso. Questo non succede perché i miei script siano mancanti di qualcosa, quanto piuttosto, perché mentre giro divento consapevole della direzione in cui mi sto dirigendo. In Tito e gli alieni era molto chiaro che ci doveva essere un atto capace di andare oltre la fantasia e la fantascienza. Doveva essere qualcosa di profondamente umano, capace di far accettare al professore l’assunzione di un ruolo nuovo, di trasformare in realtà le parole del fratello. La sequenza del telefono ne è la sintesi, proprio perché riesce a umanizzare la  fusione tra fantasia e scienza.

Sempre ragionando sulle implicazioni della tua storia, che ovviamente riflette su aspetti della nostra società, mi sembra che la conclusione suggerisca una distinzione di responsabilità derivata dal fatto che alla fine ognuno viene restituito al proprio ruolo. I bambini tornano a essere tali dopo che la scomparsa del padre li ha costretti a crescere in fretta, mentre lo scienziato si riappropria delle sue prerogative di pater familias.   

Si, da un certo punto di vista però tutti si ammorbidiscono. Nel senso che all’inizio ognuno di loro si irrigidisce all’interno del proprio ruolo in una maniera più ideale che reale. Poi, accettando i propri limiti e le opportunità delle altre persone, capiscono che i ruoli reali e l’affetto che da essi ne deriva travalicano di moltissimo quelli ideali, precostituiti. Anche da parte dei bambini uscire dagli schemi significa ammorbidirsi. La ragazzina alla fine accetta il passaggio di consegne tra il padre defunto e il suo surrogato rappresentato dallo zio, ed è in questo modo che riescono a creare qualcosa di nuovo.

D’altronde nella vita sono spesso gli schemi a impedirci di fare passi in avanti e di renderci felici.

Perché questi derivano dalla paura, mentre la fantascienza funziona come antidoto poiché fa di tutto per mostrarci come superarla. Pensiamo al timore nei confronti degli alieni, metafora di quella che abbiamo verso ciò che disconosciamo. Pensiamo a Spielberg e alla scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo in cui mentre gli adulti si affrettano a chiudere i pertugi che permetterebbero agli alieni di entrare il bambino serenamente apre loro la porta. Dopo anni di mostri cattivissimi, la scena in questione riesce a rompere questo schema. Già Lucas in Guerre stellari aveva imposto una visione non ostile del mondo alieno, perché la fantascienza è fatta apposta per superare i confini che ci siamo imposti e che in realtà non esistono.

A proposito di registi, mi ero segnato dei riferimenti da associare al tuo film: quello di Spielberg, presente anche nel percorso di riformulazione famigliare e nella ricerca della figura paterna da parte del bambino, ma anche dello Zemekis di Contact, con Mastandrea che, alla pari di Jodie Foster, cerca di mettersi in contatto con la persona amata.

Spielberg, ma anche Ritorno al futuro e in qualche modo Solaris. Contact è presente in un’altra forma. Io non avevo visto il film di Zemekis quando ho scritto la sceneggiatura ma lo conoscevo per via di Carl Sagan, autore del libro che ha ispirato la storia. Sagan, tra le altre cose, è il grande assente tra gli esperti interpellati dall’aiuto regista di Kubrick quando, in fase di preparazione de 2001: Odissea nello spazio, fu chiesto ai più importanti esperti del settore di dire la loro sull’esistenza degli alieni. L’unico a mancare all’appello fu proprio Sagan, che all’epoca era forse il maggior divulgatore della materia in questione. A partire dagli anni ’50 fu anche artefice e promulgatore di un progetto americano unico al mondo dedicato alla ricerca di intelligenze extra terrestri. Le sue teorie sullo spazio tempo sono state una fonte d’ispirazione non tanto dal punto di vista cinematografico ma per i contenuti del suo pensiero. A proposito di questo, qualche giorno fa abbiamo fatto un’anteprima all’agenzia spaziale italiana, e con mia grande contentezza un astrofisico mi ha detto che il film ha affermato una verità a metà perché è vero che l’eco delle persone scomparse resta nell’universo, solo che non si hanno gli strumenti per raccoglierne i dati.

 

La realizzazione di Tito e gli alieni è tutt’altro che casuale, perché mi sembra di capire che sei una grande appassionata di fantascienza. È così?

Si, sono un’appassionata pazzesca. Pensa che da piccolina sono andata a vedere Guerre stellari dopo essermi preparata alla proiezione per circa un anno: sapevo tutto sulla storia e sugli effetti speciali, ed ero una fan sfegatata di Carlo Rambaldi. Dopo Into Paradiso mi si offrivano due strade: una era quella di fare un film più ragionevole e semplice da realizzare, l’altra, invece, di avventurarmi in questa direzione. Visto che tutti mi ripetevano che il secondo film in genere si sbaglia ho pensato che valesse farlo con un film di fantascienza.

In questo senso, penso tu sia stata coraggiosa anche perché pensare a un film come tuo implicava il confronto con modelli capaci di cambiare l’immaginario collettivo.

Secondo me ci sono due modi di rivolgersi ai maestri del cinema. Il primo è quello segnato da un atteggiamento reverenziale, l’altro, invece, me lo ha insegnato Silvano Agosti, il quale durante i suoi corsi mostrava le opere prime dei grandi autori e poi ci diceva di guardare a loro non come mostri sacri, ma, piuttosto, come registi che alla pari di noi non vedevano l’ora di fare il loro primo lungometraggio. Da qui ho capito che quegli esempi non erano qualcosa di inavvicinabile, ma piuttosto un’eredità su cui si poteva contare. Questo è stato fondamentale. Osare è fondamentale, e in questo senso penso che il mio film proponga una fantascienza inedita nel panorama della nostra produzione.

Uno dei punti vincenti del tuo film è quella di riuscire ad armonizzare le sue diverse nature: quella italiana, rappresentata dagli usi e i costumi italiani tipici della “famiglia” di Tito, e l’altra, americana, propria della filosofia New Age rintracciabile nel filo rosso che lega la venuta degli alieni alla necessità di lasciare andare le anime di chi ci ha lasciato.

Allora, io sono di Milano, ma non ho ancora fatto un film su questa città. Il mio primo lavoro era ambientato a Napoli, uno degli spazi più rappresentati dal nostro cinema. Questo per dirti che fin da subito mi sono dovuta confrontare con il problema di come relazionarmi a qualcosa che non ti appartiene. Per superare il gap la prima cosa è studiare: io a Napoli mi ci sono trasferita e in America sono andata parecchie volte. Poi bisogna aprirsi a queste realtà avendo una guida famigliare, capace di aprirti le porte di questi mondi in maniera credibile e vicina al nostro immaginario. Per il mio esordio Gian Felice Imparato mi fece da tramite con la comunità skrilankese, nel secondo invece ho avuto a che fare con una comunità internazionale, quella degli scienziati, che è caratterizzata dalla mescolanza culturale e dalla necessità – come ha fatto mia sorella che appunto è una scienziata – di andare a lavorare all’estero. Tutto ciò è entrato nel film, aiutandolo a costruirsi la propria identità e verosimiglianza.

Da questo punto di vista mi pare importante la decisione di mantenere le prerogative linguistiche dei personaggi italiani e stranieri. Avresti potuto girare tutto in Italiano, ma sarebbe stato meno verosimile.

In realtà me lo hanno proposto, ma la cosa non era verosimile e soprattutto necessaria. La lingua è la nostra maniera di comunicare, quindi nel momento in cui uno deve farsi capire trova sicuramente il modo di farlo. Dato che ho fatto un film in cui si cerca un modo per comunicare con l’universo mi sembrava non fosse un problema il fatto ce ne fosse più di una. Per fare un esempio, a me quest’anno è piaciuto molto il film di Luca Guadagnino anche per l’assoluta serenità con cui passa da una lingua all’altra. Lo reputo una dato importante. Se la lingua è foriera di cultura, mescolarla alle altre diventa fondamentale.

Credo che questa sia uno dei tanti segnali che testimoniano quanto il nuovo cinema italiano sia alla ricerca di nuove forme di espressione. Peraltro, la qualità del livello raggiunto impone alla critica un cambio di passo e un giudizio più svincolato dai paragoni con i maestri del passato. Per esempio, un uso delle lingua come fai tu e altri tuoi colleghi un tempo era impensabile mentre ora sta diventando un patrimonio comune a molti film.

Certo, anche Susana Nicchiarelli con il suo ultimo lavoro (Nico, 1984) l’ha fatto. Secondo me questi confini non esistono più. La tradizione è confortante, crea sicurezze, però oggi il cinema italiano sforna titoli eccezionali come quelli della Rohrwacher, dei fratelli D’Innocenzo e di Garrone, con quest’ultimo che più di altre volte utilizza la favola, allontanandosi dall’eredità del neorealismo.

È questo che voglio dire. Mi pare che in Italia ci sia una nuova categoria di autori desiderosa di esprimersi in maniera più libera, anche a costo di “tradire” la lezione dei padri. La tenete presente ma riuscite ad emanciparvi da essa.

A tal proposito, mi viene in mente una frase di Picasso, il quale ebbe modo di dire che la fotografia aveva liberato la pittura dall’obbligo di essere rappresentativa della realtà. Ecco, credo che la televisione e ancora di più internet abbiano svolto nei confronti del cinema la stessa funzione, e cioè quella di liberarlo dai retaggi del proprio passato. Narrare storie altro non è che inventarsi delle favole; una cosa condivisa da tutti gli esseri umani che lo fanno in completa libertà. È un’attività più comune di quanto si creda: anche chi prende un telefonino e fa una instagram story in realtà sta proponendo una versione personalissima della realtà

Assieme a quello di Garrone e di Rohrwacher, anche il tuo film è una  favola in cui i sentimenti giocano un ruolo molto importante e fanno commuovere.

Tu hai citato due maestri del nostro tempo: entrambi percorrono la strada del cinema in maniera libera. La chiave è proprio questa libertà: Garrone gioca con i generi, Alice, invece, attraversa un universo di sentimenti che ci proietta in un mondo magico dove la meraviglia nasce dalle cose piccole. E come se nell’infinitamente piccolo si trovasse l’infinitamente grande.

Non è un caso che, alla pari dei tuoi personaggi, sia Marcello che Lazzaro sono degli alieni rispetto al mondo che li circonda.

Assolutamente si. Credo che anche Alice come me sia innamorata dell’Orlando furioso: le sue rappresentazioni assomigliano a una specie di Luna di Astolfo, dove a essere recuperati sono brandelli di memoria. Non dimenticare che il cinema, a differenza del teatro, è una forma di comunicazione fondamentalmente nostalgica, perché coglie un’emozione e la ripropone all’infinito, facendone un vero e proprio esercizio di nostalgia.

Tu, comunque, non sei da meno. Te lo dico perché c’è sempre il pregiudizio a proposito del quale si considera il cinema mainstream minoritario rispetto a quello d’autore.

Secondo me, invece, sia la fantascienza che la commedia ci hanno regalato film  straordinari, realizzati da autori importantissimi e perfettamente nelle corde del cinema e del popolo italiano. Certe classificazioni sono nate a posteriori per la necessità di spiegare al pubblico cosa andare a vedere. La realtà è che, oramai, c’è sempre più mescolanza, il genere non è mai puro ed è solo un altro degli strumenti che si hanno a disposizione per raccontare le proprie storie. Tarantino è forse quello che più di tutti gioca con i generi, ma anche Paul Thomas Anderson non è da meno, prendendoli e manipolandoli come meglio crede per riuscire a veicolare una storia. Pensa a un film come Niente da nascondere di Michael Haneke, dove il genere diventa qualcosa di semantico, volto a riflettere il sentimento e la posizione del protagonista nei confronti degli stranieri; una riflessione sulla percezione di un’intera società più che la messa in scena di un genere puro. Lì si vede bene come si tratti di uno strumento nelle mani del regista.

La scelta di un tono da commedia ti permette di ovviare alla mancanza di grandi budget, attraverso la coerenza che esiste tra la semplicità degli effetti speciali e la nativitè dei personaggi. Ti chiedo se sono state le ristrettezze produttive a stimolare questa opzione oppure sarebbe stata così in ogni caso.

Intanto la commedia per me è una chiave di lettura del nostro tempo. Io non riesco a non leggere la realtà con un velo di ironia. Inoltre i grandi maestri ci insegnano che quando si vuole trattare un grande tema se lo si fa con il sorriso le difese del pubblico si abbassano e il messaggio arriva a destinazione. Il dramma lo si guarda da una posizione di difesa, mentre il sorriso e la risata aprono il cuore e lo predispongono ad accogliere qualunque contenuto tu voglia veicolare; basti pensare a come lo fa Monicelli ne La grande guerra per non avere dubbi in proposito. Per me l’ironia è fondamentale, senza di essa non riuscirei a narrare le mie storie, poi nel momento che uno si confronta con riferimenti così alti se non lo fa con ironia è un matto. Non prendersi mai sul serio aiuta molto. Adoro gli autori che minimizzano le cose, perché il cinema resta un grande gioco di prestidigitazione e quindi l’ironia non è solo una dichiarazione d’umiltà, ma anche la maniera per togliergli questa aurea di sacralità che può essere limitante e un po’ pesante.

Oltre al fatto di ambientare la storia nei pressi dell’area 51, nel film a risaltare è la presenza di un look vintage e la capacità che hai di attribuire significati straordinari a oggetti di uso comune: mi riferisco alle mise extraterrestri di Stella, alle tende gonfiabili che diventano basi lunari e alle maschere dei mostri indossate da alcuni personaggi.

Le maschere degli alieni erano una sorta di dichiarazione immediata, per dire che volevamo raccontare una storia prendendoci in giro. Un modo per dire allo spettatore di prepararsi a ricevere una forte carica d’ironia; tra l’altro il personaggio che le indossa è molto simpatico e bravo, è Miguel Herrera a renderlo. Peraltro Luke mi è stato ispirato da una persona reale incontrata in un piccolo paesino del Nevada. Tieni conto che a Las Vegas il matrimonio spaziale lo fanno per davvero. Noi ne abbiamo fatto qualcosa di più contenuto, nel senso che quello reale è davvero esilarante, con la musica di Star Trek, gli sposi vestiti a tema e i finti atterraggi delle astronavi. Arrivati sul posto ho scoperto che gli sposi non potendo avere tutte le comparse necessarie a riprodurre le scene del film le riproducono utilizzando dei cartonati a grandezza naturale, che di fatto sostituiscono i personaggi mancanti. L’America di per sé regala tantissimo; in più a me piaceva l’idea di evocare il pianeta e la casa dove abitava Luke Skywalker. Non avendo i soldi necessari mi sono divertita a rievocarla in maniera povera. All’inizio volevo costruire una casa trasparente, poi un po’ per il terreno di Almeria, che non permetteva di costruirvi sopra, un po’ perché arrivare sul luogo delle riprese non era così facile, sta di fatto che abbiamo optato per qualcosa di leggero e trasportabile. Maria Panicucci ha trovato questa bolla che in realtà è una tenda da campeggio.

Anche il container che si apre sul davanti è qualcosa di originale e allo stesso tempo divertente.

Gli interni del container che si apre verso l’esterno sono stati allestiti in maniera straordinaria. Io ne avevo visto uno simile a Londra e Maria Panicucci è stata capace di  trovarne uno simile utilizzato come stand di una fiera. Appena me lo ha mostrato non ho esitato a prenderlo. Accanto a queste “invenzioni” ci sono altre cose reali, come l’osservatorio che si trova a oltre 2000 metri, proprio sul picco della montagna che si erge sopra la piana dove avevamo messo la tenda del professore. Li ci hanno girato Game of Thrones e, a suo tempo, i film di Sergio Leone.

Dimmi qualcosa del tuo Hal 9000, che è a dir poco una roba portentosa.

Linda all’inizio doveva essere un semplice decoder. Poi ho pensato di farne un oggetto costruito dal professore per essere una sorta di totem della moglie che non c’è più. Lo avevo pensato come un mix di tecnologia e spirito vintage alla maniera di WALL•E, perché volevo che fosse un po’ una pattumiera, nella considerazione che le cose che l’umanità perde sono anche un po’ gettate via. In più il primo corto che ho fatto con Valerio Mastandrea si chiamava Giulietta della spazzatura, in cui il protagonista si innamora di una ragazza senza averla mai vista e per il tramite delle cose di lei trovate in un cassonetto. Inizialmente il computer non doveva fare moltissimo, poi ho capito che questa accozzaglia di latta poteva diventare un personaggio, e così è stato.

Linda è talmente simpatica che mi piacere vedere uno spin off con lei protagonista.

Pur essendo americana Linda contiene tutti gli stereotipi possibili dell’italianità. Anche lì ci prendiamo in giro. Non so se ti sei accorto che la sua voce è la mia. All’inizio doveva essere quella di un’attrice di professione, ma la dizione troppo perfetta finiva per raffreddare lo spirito del personaggio. È per questo motivo che, alla fine, mi sono convinta a prestargliela: le imperfezioni della mia dizione erano funzionali alla resa del personaggio. Io sono anche una grande amante dell’animazione e quindi ci sono riferimenti importanti in questo film: da WALL•E Up, altro film straordinario che analizza il lutto.

E veniamo a Valerio Mastandrea. Se ancora ce ne fosse bisogno, Tito e gli alieni è la dimostrazione di un talento che gli consente di essere allo stesso tempo una maschera e una persona. Alle prese con un ruolo per molti versi  inedito, riesce a farci ridere e commuovere con disarmante naturalezza. Mi puoi dire qual è la caratteristica che lo rende così unico e inimitabile ?

Secondo me la caratteristica unica e un po’ magica gli deriva dalla carica d’umanità vibrante che unita a un’icona straordinaria e a un velo di malinconia gli permettono di interpretare qualsiasi personaggio. Quando parlavo con Massimo Gaudioso con cui ho scritto il film e che per me è un vero e proprio maestro – mi diceva che Valerio era perfetto per la storia, perché in un contesto bislacco come quello di Tito e gli alieni aveva la gamma di colori in grado di donare al tutto credibilità e grazia. E poi qui ha dovuto fare un grandissimo lavoro perché è stato trasportato in un altro universo, non solo fisicamente ma anche per il tipo di personaggio che è, appunto, uno scienziato. Si è dovuto confrontare con una serie di limiti che è riuscito a trasformare a suo favore. Nel momento in cui è entrato nella parte era meraviglioso vederlo in azione. Quando gli ho chiesto di ballare con Linda – che pesa tantissimo – sembrava perplesso poi appena ho messo il pezzo di Chet Baker si è cosi immedesimato da aggiungere nuove sfumature alla sequenza. Alla fine della scena l’intera troupe era commossa. Aggiungo che qui riesce a giocare con i silenzi e con il corpo, rendendosi artefice di una comicità prorompente. Io gli devo tantissimo. All’inizio ho studiato legge e lavoravo in una società di pubbliche relazioni in cui mi occupavo di scrivere contenuti per aziende. Grazie a un mio cliente sono entrata in contatto con Valerio che era già famosissimo e gli ho mandato uno script. Tre settimane dopo mi ha chiamato, dicendomi che lo voleva fare. Da li è nata la mia carriera di regista. Senza di lui probabilmente non sarebbe andata cosi.

Clemence Poésy, invece, mi sembra una sorta di controparte femminile del personaggio di Mastandrea. Se la sua scelta poteva sorprendere alla fine del film non si riesce a pensare a un’altra attrice per la parte di Stella.

Lei è straordinaria. Avevamo fatto diversi casting internazionali, ed eravamo nelle ambasce: avevo pensato a Carla Juri, che però era impegnata in Blade Runner 2049, poi ho trovato Clemence: lei ha una bellezza particolare, per niente ostentata e molto delicata. Oltre a recitare benissimo, anche lei è un poi matta quindi poteva tranquillamente a entrare nel gruppo (ride).

I due bambini invece come li hai trovati?

Chiara Stella Riccio, che nel film interpreta la sorella di Tito, l’abbiamo trovata presto: ha fatto un provino perfetto, rivelando un talento visibile anche nel film.  Per Tito invece, che è Luca Esposito, abbiamo visto oltre 800 bambini sparsi nelle varie scuole di Napoli. Non è stato facile trovarlo, ma quando si è presentato, educato e gentile, con il suo giubbotto di pelle e senza alcun timore reverenziale abbiamo capito di aver trovato il nostro personaggio. Tatiana Lepore mi ha aiutato molto a lavorare con loro ma in generale non è stato difficile perché sono stati veramente bravi.

Dimenticavo di chiederti cosa ti ha spinto alla scelta della lingua napoletana

In realtà Napoli ha un rapporto con l’aldilà veramente speciale e unico. La magia è per loro qualcosa di quotidiano, non hanno nessun timore reverenziale verso ciò che è fantastico o ultraterreno e vi si rapportano senza cinismo. Con Angelo e Matilde Barbagallo ci chiedevamo se questa scelta poteva funzionare considerando che Valerio è romano, ma in realtà senza di essa nulla sarebbe stato credibile. Un bambino come Tito, che è convinto di poter parlare con il padre defunto, deve avere quella freschezza e quell’approccio libero nei confronti della magia che secondo me esiste solo a Napoli.

So che il film è stato acquistato da alcuni paesi stranieri

Per il momento Cina e Germania. Abbiamo avuto una risposta molto bella dal Festival di Seattle e anche a Parigi. Spero che possa essere visto perché è sempre bellissimo avere un confronto con punti di vista diversi dal tuo. D’altronde è un film universale con temi che toccano un po’ tutti.

Ho capito che sei una regista cinefila, quindi parliamo del cinema che ti piace guardare

Sono onnivora, ad eccezione delle commedie sentimentali perché non sono da melò. Da piccola ero una cinefila pazzesca. Mi ricordo che al De Amicis di Milano vidi tutto Fassbinder, mentre oggi oltre al cinema d’autore ho aggiunto i film di super eroi e di fantascienza. Tra i registi di riferimento, oltre ai soliti noti, ci tengo a menzionare l’Hal Ashby di Oltre il giardino, che declina la parola surreale in senso pittorico con la camminata sulle acque di Peter Seller che sembra un quadro di Magritte. Ashby apre una specie di finestra sull’assurdo dell’esistenza e lo fa con un’eleganza straordinaria. Poi direi l’Anderson di Ubriaco d’amore, una lezione di cinema, anche solo per l’uso del suono e del montaggio e, ancora, Se mi lasci ti cancello, incontro di due grandi come Gondry e Kauffman.

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