Sono trascorsi alcuni giorni dalla visione del film cinese di animazione Big Fish & Begonia che sto per recensire. La sedimentazione delle impressioni da esso suscitate e, in primis, la sua valutazione di carattere più tecnico che sentimentale (forse dunque più interessante che amabile) hanno conosciuto un sostanziale cambiamento. La questione non si relaziona, meramente, al mio personale gradimento mutato, ma tiene conto della distinzione tra differenti pubblici e necessarie esigenze di varianti fruibilità, che Big Fish & Begonia sembra, con enorme beneficio del dubbio, aggirare.
A scanso di ogni equivoco, il film è stupendo e, simile ad un misterioso libro di epica precristiana, si sfoglia come una rosa carnosa, petalo dopo petalo: lo riguarderei volentieri e ne consiglio la visione. Agli adulti, però. Non si tratta di un generico discorso di ostinata sensibilizzazione delle masse anestetizzate postadolescenziali che dovrebbero curarsi, tornando fanciulle e fanciulli: a mio giudizio, la sceneggiatura del lungometraggio è scritta senza seguire quell’ordine “orizzontale” per cui la consequenzialità del plot, consentirebbe di disporre, senza difficoltà, della storia e così di riflettere su di essa onde apprezzarla.
Lo scrivo a ragion veduta: in sala, con me, vi erano dei bambini e dalle mie esperienze pregresse, in loro compagnia, in occasione di prime visioni di pellicole del genere, ho notato un livello di distrazione che, questa volta ( spero l’unica e ultima!) giustifico: i “fatti” apparivano spesso in-seguibili e la durata è risultata eccessiva per una vicenda arricchita di episodi rivelatori di un gioco di ridondanza, troppo poco romanzato e inutilmente barocco.
Big Fish & Begonia inoltre è stato paragonato, per assicurarne lo splendore in perpetuum, alle grandi produzioni dello Studio Ghibli. Trovo l’associazione un tradimento e, in un certo senso, una deresponsabilizzazione nello spingere il film a viaggiare autonomamente come meriterebbe, valorizzando i suoi pregi, pur badando a non nasconderne i difetti. I contatti con i film di Hayao Miyazaki sono parecchi, ma da reperire soprattutto nel fascino senza tempo delle strutture architettoniche marcatamente allegorico-simboliche che caratterizzano, in generale, le fiabe, e nello specifico i pluripremiati La città incantata, Il castello errante di Howl, e prima ancora La Principessa Mononoke.
Per realizzare questo capolavoro dell’animazione cinese, sono occorsi ben dodici anni e bisogna ringraziare di cuore la Draka distribution per averne permesso l’arrivo in Italia dopo soli due anni dalla prima uscita del film nelle sale siniche in cui al box office ha incassato ottantacinque milioni di dollari.
Ha un potere ipnotico quanto viatico la frase che campeggia sullo schermo a precedere il titolo: «Benvenuti nel nostro sogno» perché la configurazione della storia in questione, ispirandosi ad un classico della letteratura cinese taoista Zhuangzi, senza escludere apporti da altri racconti della tradizione come Classic of Mountains and Seas e In Search of the Supernatural, è molto più onirica di quanto si possa supporre. Non a caso, nel 2003, i due giovanissimi registi Xuan Liang e Chung Zhang, fondando il loro B&T Studio, decisero di avviare il progetto Big Fish & Begonia ispirato a due sogni che Liang raccontava di aver fatto ai tempi dell’università. La sovrapposizione di troppi piani narrativi, il disvelamento di infiniti segreti più o meno necessari al prosieguo dell’azione, l’ eccessiva confusione, nel senso di mescolanza tra mondi parallelamente protagonisti sono giustificabili alla luce di una cosmogonia ancora magmatica e in definizione, sebbene adorabile. La forza della resistenza di chi guarda le immagini in movimento e ne coordina la storia risiede infatti nella bellezza visiva del film frutto di una combinazione magistrale di animazione tradizionale e 3D. Non da meno le musiche delicatissime e pervasive capaci di annunciare un multiplo senso di rinascita come una fiammella in fondo ad un tunnel buio ed angusto.
Pensiamo alla meraviglia dei libri illustrati per bambini: infinite fiabe e favole dal mondo note a menadito che appaiono sempre nuove e ricche di fascino, quando si aprono pagine capaci, nei colori, nei disegni, nella carta di far (ri)vivere sempre nuove emozioni.
Riporto, dunque, con entusiasmo, il commento di Sarah Buddery per il BFI London Film: «Utilizzando un mix di disegno a mano e computer graphic (che sembrano essere più la norma oggigiorno), BF&B è assolutamente da togliere il fiato. Ci sono moltissimi momenti in cui si desidera fermare l’immagine, anche solo per fissarla nel tempo e goderne a pieno».
Tra queste imprescindibile è il volto della protagonista, la bella moretta Chun, ben presto eroina di due mondi che, come innumerevoli altre colleghe poco più che adolescenti di nobil lignaggio o meno, al compimento dei sedici anni, deve effettuare un viaggio di iniziazione alla scoperta (necessaria) del mondo umano.
Ella vive infatti in un mondo “altro”, al di sotto del mare, insieme al suo popolo chiamato “Gli Altri” i cui membri, per sembianze, sono identici agli uomini, distinguendosene poiché hanno speciali poteri di gestione del Tempo, delle Maree e delle Stagioni. Come sempre, gli Uomini, sono incapaci di autogovernarsi e, si tratti di dei, di alieni o “Altri” appunto, nella Storia delle Storie, vi è sempre qualcuno convocato a farsi carico delle loro vite portando sull’atlante universale un enorme fardello, per via di quella finestra sempre lasciata aperta sul caso che costruisce itinerari inebrianti, giacché imprevisti e pericolosi. Gli “Altri” in effetti devono attraversare un portale di collegamento con il mondo umano trasformandosi in delfini rossi per poter nuotare liberamente, in un azzurro che ben presto si fa poderosissima colonna d’acqua e infine oceano. Tuttavia, hanno una legge suprema da rispettare ovvero non entrare mai in contatto diretto con i loro protetti. Chun quando emerge in superficie, nuotando in un elemento, che fino a poco tempo prima, quand’ella aveva ancora il corpo di una ragazza, identificava come il suo cielo, rimane affascinata, estasiata, quasi terrorizzata dalla bellezza della Natura di lassù. Il suo viaggio esplorativo dovrebbe durare sette giorni per concludersi con il ritorno al portale e all’affetto dei suoi cari e della sua comunità.
Lusso, calma, voluttà: Chun perde il conto dei giorni e delle ore e soltanto al tramonto del settimo giorno, quando è ormai troppo tardi, segue quella corrente in cui gli altri coetanei già si son gettati. La crudeltà dell’Uomo, prima quasi non percepita, le si scaraventa come una punizione per il peccato di hybris, direbbero gli antichi Greci, assimilandola a Icaro, Ippolito e tanti superbi che hanno abusato dei “limiti”. Impigliata in una rete di pescatori (immagine estremamente simbolica), un giovane, si tuffa in mare e, attratto dalla libertà seducente dell’unico delfino rosso, non ancora unitosi al branco, ne libera il corpo. Mentre Chun, però, recupera la vita, il suo salvatore muore.
Da qui in poi, il film affastella infiniti itinerari che tutti i personaggi principali dovranno percorrere per giungere alla soluzione finale, pertanto, escludo deliberatamente, l’introduzione di discorsi prettamente filosofici (l’iperuranio platonico e i rapporti di mimesi, metessi, parusia e aitia con il mondo reale), per evidenziare, il più cinematografico concetto di “doppio” che struttura, in toto, la pellicola. Non è infatti appropriata un’analisi perché si rischierebbe a torto di demolire le fondamenta di uno zibaldone di parole e immagini, da ristrutturare: più allettante e forse utile è l’idea di considerare Big Fish & Begonia un immenso campo in cui seminati in ordine sparso si drammatizzano cliché, topoi e domande sulla Vita e il Destino tante volte riproposte da sembrar banali e retoriche: chi siamo, da dove veniamo e dove andremo. Il punto di vista del film è affidato interamente alla protagonista che interviene con voce fuori campo a raccontare, trasformatasi ormai in donna, la sua incredibile storia. È Chun il primo doppio di sé: nata nel regno degli “Altri” si replica in quello degli “Uomini” per rimanervi per sempre.
I restanti mondi non esibiscono una copia (conforme o meno ad un ipotetico originale, tanto per fare una citazione cinematografica) ma un sentire ed un percepire paralleli in situazioni, età e momenti differenti in cui non mancano piccoli sovvertimenti di quel principio d’ordine della realtà umana da leggersi quali vere e proprie vittoriose vendette: i servitori della Signora delle Anime, Ling Po, abbigliata da pingue Papessa con la mitra in testa costellata di scaglie (poiché è un pesce) sono gatti che si trasformano in oggetti, a seconda delle necessità usando i loro corpi flessuosi a mo’ di tavoli, sedie, portantine ecc…
Tornando alle simmetrie, degne di nota risultano, per la delicatezza del loro trattamento, alcune scene dedicate: al doppio amore dell’amico “Altro” di Chun disposto a salvarla perdendo la sua stessa vita pur di consentire che la ragazza diventi umana e trascorra la sua esistenza accanto al pescatore; alla metamorfosi di quest’ultimo che resuscitato grazie alla cessione di metà della vita di Chun, assume le sembianze di un piccolo delfino (proprio come gli iniziati “Altri” quando ascendono al cielo-oceano e per sette giorni esplorano il mondo degli “Uomini”) sulla cui fronte, in forma di unicorno ( simbolo di purezza) è riprodotta la cicatrice marcante il suo volto sin da bambino; alla Natura e alle Stagioni che nel mondo degli “Altri” abbattono la loro furia scatenando neve e tempeste in un moto violento di distruzione esattamente come è d’uopo per l’Umanità in superficie ai danni di piante ed animali; a Chun –delfino rosso impigliata in una rete incidente accaduto poco prima ad tartaruga incapace di liberare il suo carapace da un groviglio di plastica; ai versi strazianti emessi dal pescatore-delfino quando si sente in pericolo, identici a quelli di Chun che gli chiede aiuto in mare; infine allo strumento a fiato ( una sorta di rudimentale flauto a forma di corno)che passa di mano in mano ad attrarre ed ammaliare, come un canto di Sirene.
Anche il titolo Big Fish & Begonia può sottendere un doppio: il grande pesce è il cetaceo nel cui corpo rivivrà il pescatore proprio come la begonia rappresenta la pianta in cui si reincarnerà la bella Chun, prima di entrare insieme al suo compagno umano, nel portale che collega Cielo e Oceano e prendere un corpo di donna: due nascite, due morti, due rinascite…
Le immagini finali, per semplicità e bellezza tolgono il fiato: il corpo senza veli del giovane giace nell’acqua cullato dalle onde, mentre Chun, anch’ella senza vesti, cammina verso di lui rivolgendo la schiena al pubblico: la macchina da presa, perché di cinema allo stato puro si tratta, inquadra due anatomie idealizzate, un Kouros e una Kore, esempi di nudità eroiche ed archetipiche. L’incontro dei loro occhi luccicanti sembra rialitare i loro cuori e suggella un patto d’amore eterno ed universale fuori dal tempo, dallo spazio e da ogni pericolo di caducità.
I novelli Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre non temono nulla dopo le innumerevoli prove mortali che hanno dovuto affrontare: il nonno di Chun prima di metter letteralmente radici ( la moglie da molti anni è un’araba fenice) e tramutarsi in un albero di begonia per salvare la vita del pescatore si era così espresso per calmare la nipote mentre lui moriva anzitempo per una giusta causa: «Il percorso che hai scelto non è facile, ma se sei consapevole di questo, segui il tuo cuore. La morte non è la fine, come la nascita non è un inizio, ma entrambe sono fermate sul cammino dell’eternità».
I sacrifici d’amore e per amore non saranno vani, altrimenti non avrebbe alcun senso una lunga vita senza gioia: quel sentimento che ha unito Chun e il pescatore, sin dal primo sguardo in acqua, durerà per sempre come le stelle. D’altronde è dall’acqua che entrambi provengono: le loro lacrime poiché sono salate, lo confermano. Nessuna vita si è mai davvero consunta fino a eclissarsi: l’equilibrio smette di esser precario e si stabilizza quando lo scambio dei respiri, degli sguardi, dei cuori doppia il suo nome in “dono”. Menti ottuse e limitate continuerebbero a definirlo “perdita”, ma l’Amore tra Chun e il pescatore, tra gli“Altri” e gli “Uomini”, tra esseri “diversi” è semplicemente prezioso come un “regalo”. Le loro nuove vite, che mi auguro di vedere in un prossimo film d’animazione, possono ora consentire che il tessitore Futuro, lesto, volti pagina, come fa la virgola con il pensiero, essendo di esso, secondo Cortàzar, la porta girevole.