“Un esordio fuori dal comune” per Le Monde, al quale fa eco The Hollywood Reporter definendolo “Un debutto impressionante”, arricchito da “Un cast perfetto” secondo Libération. Non si può non dare un seguito, condividendone ogni singola parola, a quanto già speso e scritto a favore de L’affido nei mesi successivi all’anteprima mondiale della pellicola di Xavier Legrand alla 74esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, dove si è aggiudicata il Leone d’argento per la migliore regia e il Leone del Futuro come migliore opera prima.
Tantissimo è già stato detto su quello che per quanto ci riguarda è uno degli esordi dietro la macchina da presa più intensi e potenti degli ultimi anni, capace di scavare un solco e di lasciare una cicatrice nella mente, nel cuore e sulla retina dello spettatore di turno, quest’ultimo costretto a caricarsi sulle spalle un’angoscia e un senso di malessere che continua a persistere anche al termine della fruizione. Quello del cineasta francese è un film difficile da scrollarsi di dosso, poiché si fa portatore di un ventaglio di emozioni, sensazioni, paure e stati d’animo, che dallo schermo arriva diritto al fruitore come un pugno ben assestato alla bocca dello stomaco. Ed è per questo che al termine dei titoli di coda ci si sente come un pugile suonato destinato da lì a qualche frame a crollare al tappeto.
L’affido ci trascina senza se e senza ma in un dramma familiare che parla di violenza di genere e di conflitto generazionale in ambito domestico. Dopo il divorzio da Antoine, Myriam cerca di ottenere l’affido esclusivo di Julien, il figlio undicenne. Il giudice assegnato al caso decide però per l’affido congiunto. Ostaggio di un padre geloso e irascibile, Julien vorrebbe proteggere la madre dalla violenza fisica e psicologia dell’ex coniuge. Ma l’ossessione di Antoine è pronta a trasformarsi in furia cieca.
La storia raccontata in sé non ha nulla di originale, perché purtroppo di vicende così le pagine di cronaca nera e i palinsesti delle trasmissioni televisive sono piene un giorno si e l’altro pure. Questo fa della pellicola di Legrand un lavoro di strettissima e cocente attualità, che miracolosamente l’autore riesce però a tenere lontano dalle sabbie mobili della stereotipazione di un argomento ormai abusato e soprattutto della spettacolarizzazione del dolore. Per farlo, il regista lavora in direzione opposta, svuotando la scrittura prima, la messa in quadro e la recitazione poi, di tutto quel carico di orpelli e implicazioni cronachistiche che potevano in qualche modo spingere lo script, i personaggi che lo animano e la sua trasposizione verso il suddetto approccio. L’autore punta tutto sul crescendo dell’emozioni e sulla catena di causa ed effetto che l’escalation di violenza psicologica e fisica provoca sui diretti interessati, restituendo sullo schermo quel magma distruttivo di violenza sotterranea, paure taciute e minacce sommesse che migliaia di donne, in tutto il mondo, vivono ogni giorno.
Legrand è bravissimo a non calcare mai la mano, a lasciare che siano i dialoghi, le azioni, i gesti, i silenzi, le interpretazioni e i potentissimi primi piani a tessere i fili del racconto, portando per mano lo spettatore in una sequela di momenti che non lasciano scampo a chi guarda.