La giovane Thelma (Eili Harboe) scopre di soffrire di disturbi mentali che le provocano tremore e svenimenti e, indagando sulla loro causa e natura, viene a conoscenza di alcuni episodi del suo passato che ne condizionano in misura determinante l’esistenza.
Il tema di fondo, quello un’adolescente debole e fragile, dotata, più o meno consapevolmente, di poteri soprannaturali, non è certo inedito, sia nella letteratura sia nel cinema (gli esempi vanno da Carrie- Lo sguardo di Satana a L’incendiaria/Fenomeni paranormali incontrollabili a Phenomena al più recente e purtroppo mai distribuito in Italia Dark touch); tuttavia, viene qui declinato e rappresentato con particolare originalità e talento inventivo. Il personaggio eponimo viene da subito mostrato isolato in un contesto indifferente quando non ostile: in tal senso, opportunamente valorizzato risulta il paesaggio scandinavo: sia quello urbano, dominato da edifici non dissimili dalle case popolari, piccole celle dove il protagonista si trova ad abitare per motivi di studio dopo aver momentaneamente lasciato l’abitazione familiare in una remota aera del paese; sia quello rurale, coperto di ghiaccio e neve e quasi disabitato; entrambi oppressi da un cielo costantemente plumbeo che grava sui caseggiati e sui personaggi, accrescendo il disagio e l’isolamento di cui soffre la protagonista.
Dopo il prologo, che anticipa il finale e colloca sotto ad una minaccia mortale l’esistenza di Thelma, quasi condannandola fin da subito a un irrevocabile destino di morte, la sequenza successiva si apre con un’inquadratura plongée, in campo lungo, della ragazza nel cortile dell’università che ha appena iniziato a frequentare, e un lento zoom in avanti stringe su di lei, evidenziandola e al contempo separandola dal contesto: tale scelta registica (cui seguirà una speculare e opposta nel finale) vale appunto a sottolineare la condizione d’abbandono sofferta dalla giovane, il suo trovarsi in una città diversa in mezzo ad estranei, lontana dal nucleo familiare e dal borgo rurale d’origine.
Se la regia di Joachim Trier non indulge in particolari virtuosismi di stile, è pur vero che la presenza, per quanto rara e sporadica, d’angolazioni di ripresa abnormi (come appunto la plongée, ripetuta un altro paio di volte) nonché la scelta di una fotografia che privilegia i toni freddi del bianco (negli spogli e dimessi interni dove si muovono i personaggi, come negli esterni innevati), e quelli già menzionati del grigio di un cielo costantemente nuvoloso e basso, contribuiscono in maniera decisiva alla creazione di un’atmosfera malsana e minacciosa, dove l’elemento fantastico entra da subito in gioco e scardina le leggi della realtà e dalla logica diurna. Attraverso tale rappresentazione di un simile contesto spaziale (dove dominano l’architettura contemporanea, con la freddezza neutra del vetro e dell’acciaio), la forma s’incarica di trasmettere allo spettatore il malessere profondo, la paura, la sofferenza e l’angoscia che attanagliano la giovane protagonista, costretta a intraprendere un percorso di conoscenza di sé durante il quale le certezze su cui fin ad allora poggiava si sgretolano via via. Si tratta di un viaggio alla scoperta del proprio essere, dei motivi, celati nell’infanzia, che hanno fatto di Thelma quello che è: non solo un’adolescente fragile e introversa, condizionata da un’educazione repressiva che l’ha resa insicura e timorosa, ma anche una ragazza sofferente di un disturbo di cui non conosce la natura e le ragioni e ne mina non soltanto la possibilità d’instaurare e mantenere legami sociali, ma giunge a metterne a repentaglio la stessa vita, a porla in condizione, pur inconsapevolmente e talvolta persino contro alla propria volontà, di nuocere a se stessa e agli altri.
Per raccontare quest’indagine allo scoperta della propria natura, del lato nascosto e ignoto della propria personalità, il regista si vale di alcune invenzioni visive di particolare effetto, attentamente distribuite nel corso dell’opera, che simboleggiano e conferiscono visibilità ai sentimenti della protagonista: un procedimento simbolista, dunque, che attraverso il fantastico dà concretezza e materializza l’astratto dei pensieri, dei sentimenti e delle emozioni di Thelma, contribuendo così a quella deformazione della realtà e della percezione caratteristiche del fantastico, luogo immateriale eppure a suo modo reale dove l’impossibile può accadere senza necessità di rispondere a una logica di causa ed effetto e senza giustificazioni che non siano quelle proprie di una realtà diversa da quella esperita dai sensi e creduta vera. Lo spettatore è dunque chiamato ad una visione attenta, a seguire il personaggio lungo la dolorosa eppure necessaria enquête in cerca di se stessa: indagine che, come s’è anticipato, rischia di condurla alla morte. Rito di passaggio all’età adulta, alla maturazione sessuale e più profondamente indispensabile processo per liberarsi di un passato che impedisce di vivere con pienezza e consapevolezza di sé la propria vita. Thelma impara a difendersi, a rispondere alla minaccia cui la sua esistenza è sottoposta; ma acquisisce anche la capacità, attraverso un potere il cui possesso non immaginava nemmeno, di compiere atti d’amore verso il prossimo. Dono o maledizione, le sue facoltà costituiscono una parte integrante della sua persona, una proprietà ereditaria e inalienabile, di cui deve però acquistare coscienza per sapere come utilizzarle: per commettere azioni che rispondano alla violenza perpetrata contro di lei, a scopo difensivo, dunque, anche se ciò può condurre alla morte chi ne minaccia l’esistenza; oppure, come s’è visto, per sanare il dolore e la malattia di chi malgrado tutto vuole perdonare. Chiusi i conti col passato, e scoperta finalmente la propria vera natura, Thelma può ora cominciare a vivere secondo i propri desideri e libera da un passato che ne inibiva il normale processo di maturazione e di crescita.
Temi di cui non è certo facile raccontare, tanto meno rendere concreti e visibili in immagini: eppure, la sfida è vinta e lo spettatore, immerso in un’atmosfera dove il fantastico permea ogni inquadratura e trasmette un senso d’inquietudine e di malessere tanto più opprimente quanto più ci si approssima alla conclusione, si trova a partecipare, quasi avvertendone la sofferenza e la paura, al cammino compiuto dalla protagonista alla scoperta della propria individualità e alla sua lotta per difendersi da chi vorrebbe condannarla per colpe commesse senza volontà e consapevolezza. Giova alla riuscita dell’opera anche l’interpretazione sempre misurata e convincente della protagonista, che rifugge da qualunque tentazione istrionica e lavora al contrario di sottrazione, limitando al minimo i movimenti del corpo e le espressioni somatiche e riuscendo a convogliare i sentimenti negativi che attanagliano il personaggio attraverso una recitazione sempre spontanea e naturale, quasi dimessa e trattenuta e attenta ad evitare eccessi che risulterebbero fuori luogo con la regia sobria e rigorosa che informa l’opera (ma si veda quanto detto sopra riguardo all’efficacia e al forte impatto esercitato sullo spettatore da alcune invenzioni- simboliste, le si è crediamo opportunamente definite- che costellano il film marcandone così gli snodi salienti).
Fantastico e giallo psicologico si trovano dunque fusi in un’opera compatta e coerente, sostenuta da una forte ispirazione e da una notevole padronanza dei mezzi espressivi propri del cinema, tanto sul piano tematico, nella capacità di offrire una lettura inedita e originale su di un tema non infrequente in questo genere di cinema; quanto su quello formale, nella costruzione di un’atmosfera avvolgente e perturbante che si scioglierà soltanto nel finale, quando la protagonista sarà consapevole di sé e del suo potere e il passato non graverà più su di lei come una minaccia potenzialmente letale. Dal 21 giugno in sala, meritoriamente distribuito da Teodora Film di Vieri Razzini e Cesare Petrillo.