Dopo la morte della madre, Aja, un ladruncolo di Bombay, intraprende un viaggio per incontrare il padre che non ha mai conosciuto. Il suo percorso sarà costellato di avventure che lo condurranno in mezza Europa, dove si troverà nel mezzo di situazioni ora comiche, ora romantiche, ora persino rischiose.
Tratto dal romanzo L’extraordinaire voyage du fakir qui était resté coincé dans une armoire Ikea (ovvero, Lo straordinario viaggio del fachiro che resto chiuso in un armadio Ikea di Romain Puértolas), L’Incredibile Viaggio del Fachiro di Ken Scott si rivela da subito ambizioso, sia sul piano delle ambizioni autoriali, sia su quello produttivo, e non rinuncia a rimandi e citazioni da film recenti con i quali intrattiene una certa consentaneità tematica (e ugualmente sostenuti da un’evidente ricchezza produttiva), come i pluripremiati The millionaire (2008) di Danny Boyle Vita di Pi di Ang Lee (2012), quest’ultimo fra i più costosi film mai realizzati. Tale disponibilità finanziaria risulta chiara anche dalla presenza di attori di buon nome e di provenienza internazionale, dai francesi Gérard Jugnot e Bérénice Bejo all’indiano Dhanush, tanto noto in patria quanto oscuro altrove, lanciato attraverso quest’opera verso un carriera internazionale. Per agevolarne la distribuzione, la pellicola è stata girata in inglese e, ulteriore spia dei fondi a disposizione, presenta una messe di differenti ambientazioni, col fine esplicito di puntare sull’esotismo e sulla mescolanza di scenari tanto lontani e diversi: le avventure di Aja si snodano, infatti, dalla natia India, in particolare Bombay, a Parigi sulle tracce del padre, all’Inghilterra dove cercano di arrivare gli immigrati africani coi quali il protagonista solidarizza, a Roma, dove non manca il consueto rito di gettare una moneta nella fontana di Trevi come segno benaugurante, alla Spagna, fino alla martoriata Libia. Il film, tuttavia, non possiede quell’ampio respiro che manifestamente cerca, la capacità di avvincere e conquistare lo spettatore nel tourbillon d’avventure che coinvolgono il protagonista, il ritmo e i tempi giusti affinché l’alternanza fra generi diversi si riveli una contaminazione riuscita e non un mero accostamento studiato a tavolino.
Pur conducendo lo spettatore nel vasto spazio di tre continenti, ognuno con le proprie peculiarità qui sfruttate nel più pittoresco e prevedibile dei modi, questa rapida alternanza di luoghi differenti si cura più di mostrarne gli aspetti facili e scontati, già noti al pubblico e magari già visti in altri film, che d’indagarne le peculiarità e l’animo in maniera approfondita, al fine di proporne uno sguardo meno banale e più attento e meditato. Ognuna delle ambientazioni è portata sullo schermo esattamente come il pubblico s’attende di vederla e come pensa di conoscerla, per non incrinarne le superficiali certezze, invece di offrirne una visione inedita e personale, corrispondente allo sguardo autoriale di Ken Scott. Non si pretende certo un’indagine acuta e penetrante come quella proposta da Jean Renoir nel Fiume (1951), da Rossellini in India (1959) o da Antonioni in Chung Kuo-Cina (1972), dovuta a uno spiccato senso dei luoghi, a una capacità di coglierne l’atmosfera e di convogliarla attraverso le inquadrature allo spettatore unica ed eccezionale; o di vedere la Parigi di À bout de souffle (1960), figlia a sua volta della Roma mostrata dallo stesso Rossellini di Roma città aperta (1945) e di Paisà (1946): un modo di raccontare la città e il paesaggio nettamente antitetico a quello hollywoodiano, con riprese rigorosamente fuori dagli studi di posa, fra le vie affollate come negli ambienti naturali deserti, ma vivi e non ricostruiti artificialmente in uno studio di posa, le cui origini possono forse rintracciarsi, ancor prima che nel neorealismo italiano, nel realismo poetico francese del già menzionato Renoir, di Marcel Carné e Julien Duvivier.
È altrettanto vero, però, che la sfilata di località diverse somiglia qui al veloce sfogliare un dépliant, o tutt’al più alla pubblicità di una Proloco intenzionata a pubblicizzare nella maniera più facile le attrattive turistiche di una città o di un territorio. Né giova alla riuscita complessiva de L’incredibile viaggio del fachiro il continuo mutamento di genere e di ritmo, ora più veloce e mosso per conquistare e divertire lo spettatore; ora più pausato e meditativo, quando si vuol proporre una riflessione su di un tema attuale come l’immigrazione; talvolta volutamente rallentato nelle scene sentimentali. Una confusione questa che mina il buon esito dell’opera e lascia lo spettatore incerto e indeciso riguardo a quanto ha appena visto sullo schermo; ma tali incertezza e indecisione appartengono in primo luogo all’incapacità o al rifiuto di scegliere un genere ben definito e, volendo, di mescolarlo proficuamente ad altri, da parte del regista e degli autori; o semplicemente a un modo di raccontare superficiale e banale, che pesca a piene mani nei film di successo degli ultimi e si limita a riproporne i temi le situazioni per un mero calcolo economico.