Il falò delle vanità (The Bonfire of the Vanities) è un film, commedia drammatica, del 1990 diretto da Brian De Palma basato sull’omonimo romanzo di Tom Wolfe, pubblicato originariamente a puntate sulla rivista Rolling Stone. Il film è stato un insuccesso sia di critica che di incassi e vede come protagonisti Tom Hanks, Bruce Willis, Melanie Griffith e Morgan Freeman. La sceneggiatura è stata scritta da Michael Cristofer e la colonna sonora originale composta da Dave Grusin. Il sottotitolo del film è “una scandalosa storia di avidità, lussuria e vanità in America“.
Sinossi
Sherman McCoy, affermato operatore di borsa, si reca a un appuntamento con la sua amante, Maria Ruskin. Per errore, la coppia si ritrova in un quartiere malfamato, dove viene aggredita da due teppisti neri. Riescono a venirne fuori investendone uno, che viene poi ricoverato in coma. L’altro ha visto due numeri della targa e denuncia l’incidente. Alla fine Sherman viene individuato e rinviato a giudizio. Peter Fallow, cronista sconosciuto determinato a sfruttare al meglio l’occasione, trova un nastro da cui risulta che al volante dell’auto non c’era Sherman ma Maria. La rivelazione provoca una serie di conseguenze impreviste. De Palma parte dal romanzo omonimo di Tom Wolfe, senza troppo rispetto per l’oleografia della Grande Mela. Ci si trova immersi in un’umanità scompigliata e frenetica, da cui non si salva nessuno: né i rappresentanti della grande borghesia bianca, né quelli del sottoproletariato nero, né i reverendi arruffapopolo, né i cronisti dalla dubbia deontologia professionale. Il registro è quello beffardo, ma senza alcuna condiscendenza verso la materia trattata. Cast stellare e messa in scena da virtuoso.
Tutto ne Il falò delle vanità è eccessivo. Il gusto della gigantografia, il piacere dell’esagerazione e la dilatazione grottesca dominano il film da un capo all’altro: i personaggi coltivano il ridicolo, gli ambienti prediligono l’esorbitante, i difetti sono sempre sproporzionati. Eppure, imbarcati sul carosello di De Palma, pur criticando e dissentendo, non ci si annoia mai. Sicuramente non il capolavoro del regista, però un film cattivo e pungente, sarcastico e intelligentissimo, capace di sradicare ogni certezza e deridere ogni comportamento. Realizzato benissimo, anche se non proprio scorrevole in ogni momento, sa comunque portare avanti la trama in modo interessante. L’elegante rilettura del romanzo di Wolfe è un cinico apologo sull’amoralità della classe medio-alta americana. La simpatia mostrata nei confronti dei meschini ometti della finanza newyorkese è solo un tranello ardito per dissacrarne le azioni nel finale moralizzante. De Palma, sempre elegante ma meno ossessivo del solito, si concede il virtuosismo di uno dei piani sequenza d’apertura più lunghi del cinema, muovendo la macchina da presa con maestria senza pesare sul film e senza il solito pericolo di voler apparire come il primo della classe. Ritmo scattante, tono grottesco, virtuosismi stilistici meno pronunciati che altrove. E, proprio nell’ultima scena, la sardonica voce narrante risponde alla domanda di quel famoso best seller: “Che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde la sua anima?”.