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Intervista a Maximilian Nisi: per una “sintesi spontanea” rosso papavero

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La presente intervista, per il piacere dei cinefili, potrebbe esser ribattezzata “L’intervista che visse due volte”. O più volte. Perché degli incontri avuti con l’attore Maximilian Nisi, intervistato per Taxi Drivers, soltanto l’ultimo è stato eternato da un registratore. Occorreva non disperderne la memoria e scavare più in fondo di quanto mai scandaglio si sia spinto ottemperando a due sue richieste specifiche: bisticciare in maniera intelligente e porre domande”cattive”. A quanti leggeranno le battute di un lunghissimo dialogo, chiedo che quest’intervista sia innanzitutto intesa come “dono”: se non si è troppo egoisti, in un modo o nell’altro, anche i doni ricevuti si rendono e rivivono come il peccato reso infinite volte tra santi e pellegrini. Sono convinta che questo mio pensiero avrebbe trovato concorde Shakespeare su cui, insieme ad altri scrittori, personaggi, persone ed azioni drammatiche, si fonda la ricchissima e preziosissima carriera di Maximilian Nisi: dalle sue parole ho ricevuto un “dono” che ora vengo a rendere.

Maximilian, se ti venisse preannunciato che, da quest’ intervista, si trarrà la miglior sintesi di te e non un approfondimento su chi sei o sul tuo ben noto percorso d’attore, cosa ti interesserebbe davvero leggere in essa? 

Quello che mi interesserebbe leggere non è tanto ciò che ti dirò, perché fondamentalmente so chi sono e conosco gli aneddoti della mia vita, i miei punti di partenza e le mie mete, anche se queste cambiano di continuo. Ciò riguarda il futuro, di cui nulla so, come anche il passato, perché i ricordi un po’ si scolorano e cambiano anch’essi. In un’intervista, mi piacerebbe leggere, e alle volte è accaduto, quello che ci può essere attorno ad una risposta: il racconto di come sono io agli occhi tuoi, di cosa tu hai saputo vedere in me. Io non ho la percezione di come appaio esternamente: ho la percezione di come sono interiormente. Quindi non mi piacerebbe che tu mi approfondissi, ma che mi raccontassi cose che non conosco, che possano servirmi a capire qualcosa in più di me stesso. Abbiamo già avuto modo di dirci quanto il confronto sia importante in una sana comunicazione. Quindi ritengo che una buona intervista non sia altro che conoscenza reciproca: io mi faccio conoscere da te, rispondendo alle tue domande e poi io conoscerò te, leggendo le mie risposte.

Bene, per meglio conoscerci, parlaci dei tuoi impegni futuri.

Poco fa, ero al telefono in conference-call con Mino Manni, un carissimo amico attore e con Alberto Oliva, un giovane regista milanese con cui Manni collabora da un po’ di anni e col quale sta approfondendo, soprattutto, il repertorio dostoevskiano. Insieme ci stiamo occupando di un progetto: vorremmo riproporre a teatro L’idiota, non in una riscrittura, ma focalizzando l’attenzione sul rapporto tra il principe Myškin e Rogožin, approfondendolo, dove questo sia possibile. Immaginando, ad esempio, cosa possa essere accaduto tra i due davanti al cadavere di Nastas’ja Philippovna, la notte in cui questa viene uccisa. Sono diversi anni che ho in mente questo progetto, precisamente dal 1994, quando con il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, ne L’idiota diretto da Glauco Mauri interpretavo due diversi personaggi del romanzo assemblati per l’occasione: Ippolit, il tisico e Burdovskij, il dinamitardo. Realizzeremo il nostro Idiota tra dicembre e fine gennaio del prossimo anno. Il Teatro Litta di Milano vedrà il nostro debutto.

Nell’immediato, dove ti vedremo in scena?

Il 23 giugno a Vicenza, al Teatro Olimpico ne l’ Edipo Re di Sofocle, in un reading musicato e cantato. Dividerò il meraviglioso palcoscenico palladiano con Maria Letizia Gorga e gipeto (nome d’arte di Marco Brancato n.d.r.). Le musiche di scena saranno composte ed eseguite dal vivo da Stefano De Meo. Il progetto è nato in collaborazione con l’Accademia Olimpica onde celebrare la classicità nel suo tempio di origine. Ho lavorato diverse volte in questo teatro in Antigone, nel Lorenzaccio, nel Don Giovanni. Nel 1995 sono stato anche premiato, accanto ad Ernesto Calindri, con il prestigioso “Lauro Olimpico”. Ci torno sempre volentieri, provando un incontenibile piacere a passeggiare tra la scenografia lignea dello Scamozzi.

Oltre che interprete, sarai il regista di questo lavoro?

Non parlerei, in questa fase, di regia. Ѐ un progetto in cui ho voluto coinvolgere degli amici teatrali e dei collaboratori molto speciali: Maria Letizia, gipeto e Stefano. In passato, abbiamo condiviso diverse esperienze e il nostro è un comune sentire. Sono certo che, anche questa volta, ci intenderemo benissimo e che sarà emozionante tornare a collaborare.

Se non erro, sempre a giugno, inizierai le prove di un altro spettacolo…

Il 26 giugno, con Milena Vukotic, diretti da Marcello Cotugno, inizieremo le prove di Un autunno di fuoco la versione italiana di The velocity of autumn, una bella commedia di Eric Coble tradotta per noi da Marco Casazza. Lo spettacolo, prodotto da La Contrada di Trieste, debutterà al 52 ° Festival di Borgio Verezzi (www.festivalverezzi.it n.d.r.) nel mese di agosto per poi replicare in autunno a Roma, Torino e in molte piazze del Friuli Venezia Giulia, tra cui Trieste. A Un autunno di fuoco, nell’ordine, seguiranno L’idiota di cui ti ho parlato, una breve ripresa di Mister Green di Jeff Baron con Massimo De Francovich per Theama teatro e in primavera  altre repliche Il piacere dell’onestà di Luigi Pirandello, per la regia di Liliana Cavani.

A proposito de Il piacere dell’onestà, le cui repliche, dopo aver calcato vari e prestigiosi palcoscenici italiani, si sono concluse a Roma a fine aprile, ti avevo chiesto  di prender nota  di  un episodio particolare accaduto in scena o legato in qualche modo a questo spettacolo…

Mi va di ricordare sicuramente il provino fatto con la Cavani. È sempre difficile, come sai,  sostenere dei provini e più passa il tempo più quella spinta di voler far bene e di piacere a tutti i costi cessa: si diventa vili, pigri e un po’ cialtroni. Non incontravo Liliana dal 1993 quando, poco più che ventenne, mi provinò per Dove siete? Io sono qui un buon progetto cinematografico a cui mi sarebbe tanto piaciuto partecipare. Quell’incontro fu un vero disastro, non solo andò male e non venni mai scritturato ma mi ritrovai a discutere animosamente con la Cavani che mi rispedì a casa in malo modo e con la coda tra le gambe. Mi ci sono voluti quasi trent’anni per esorcizzare quel momento e il provino per ‘Il piacere dell’onestà’ è stato un giusto epilogo. Devo dire che i nostri caratteri nel tempo non sono migliorati, anzi, se possibile, si sono ulteriormente complicati. Ma questa volta siamo riusciti a capirci, durante il lavoro ci siamo amati e a fine prova spesso ci siamo trovati a bere del buon vino assieme.

Ѐdifficile, di questi tempi, attorialmente parlando, tirar su, una stagione teatrale?

Sempre di più. Quando ho cominciato, negli anni ’90, si facevano tournée di sei, otto mesi, mentre quelle odierne durano qualche settimana con repliche, a volte, lontane tra loro o,assemblate in maniera lungi dall’esser comoda. Spesso si portano a memoria interi copioni, con pochissime prove, per una manciata di recite. Nei periodi fortunati, si alternano spettacoli diversi, gestiti da produzioni differenti spesso inconciliabili tra loro. Un delirio.

Le attuali produzioni sono consapevoli di questi sforzi? Come attori, lavorando in tali condizioni vi sentite sfruttati o siete dei privilegiati?

Chi lavora è sempre un privilegiato, anche con la decurtazione delle paghe e con leggi amorali, scandalose ed assurde come quella “under 35”. E dal momento che non c’è mai fine al peggio da qualche tempo si è anche cominciato a parlare del “contratto ad intermittenza”. Ciò annullerebbe, in un lampo, molti dei diritti acquisiti da chi, prima di noi, ha lottato negli anni per ottenere considerazione e riconoscimenti, garantendo agio a tutta la nostra categoria. Se dovesse passare anche questa folle norma tutte quelle battaglie, in un attimo, verrebbero cancellate e svanirebbero nel nulla.

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La scorsa volta, mi hai confessato che, oggi, come artista, non vorresti avere vent’anni. Cosa intendevi dire?

Non vorrei avere vent’anni per diverse ragioni, una delle quali è proprio la legge “under 35”, che scippa ad un giovane attore in formazione la possibilità di lavorare a stretto contatto con attori di età ed esperienze maggiori. Un attore di vent’anni ha bisogno di figure di riferimento, con le quali potersi interfacciare, di interpreti più maturi, più consapevoli e più saggi a cui  magari ispirarsi in futuro . Mi riferisco a quel passaggio di tradizione e di conoscenza fondamentali per chi si trova in un momento di crescita. Oggi, a me, non sarebbe data la possibilità di incontrare Tino Carraro, Glauco Mauri, Gabriele Lavia, Giulia Lazzarini, Franco Graziosi, Tonino Pierfederici, Virginio Gazzolo, Corrado Pani, Massimo De Francovich, Piera Degli Esposti, Massimo Popolizio, Giuseppe Pambieri, Annamaria Guarnieri, Pino Micol, Galatea Ranzi, Luca Lazzareschi… solo per ricordarne alcuni. Il nostro è un lavoro che si impara anche rubando.

Dunque  che età vorresti avere, oggi?

Forse trent’anni. A trent’anni, ho vissuto momenti felici. Ho un bruttissimo rapporto col tempo che passa. Mi rincresce invecchiare: ho un’anima faustiana. Ogni sera, prima di chiudere gli occhi, penso che un’altra giornata se n’è andata e non riesco a darmi pace per questo. Ho voglia di fare tante cose e mi rendo conto che il tempo  concessoci per farle non è sufficiente. Provo la stessa sensazione quando guardo la caterva di libri  acquistati nel tempo perché so che non riuscirò mai a leggerli tutti e questo mi procura dolore: se li ho comprati vuol dire che qualcosa mi ha spinto a farlo e la prospettiva di non riuscire neanche ad aprirli mi paralizza.

Per accrescere il tuo dolore, ci sono libri che andrebbero riletti…

Rileggere un libro mi fa paura. Capita, a volte, per lavoro, di doverlo fare, ma  se posso, evito. Come si dice? Mai tornare nei posti che abbiamo amato da piccoli. Sto rileggendo in questi giorni  Narciso e Boccadoro   per “Fiato ai Libri”, un festival letterario di Bergamo. Da giovane ho amato moltissimo questo romanzo di  Herman Hesse, eppure oggi non riesco a “ritrovare” una serie di emozioni, provate anni fa, come se  non mi giungessero più. Certo, ancora mi impegna, ma in maniera diversa, filosofica e non più emotiva.

Passiamo ora ai compagni di scena: in questo preciso momento storico, se ti fossero imposti come divi assoluti ed insostituibili nomi non di artisti veri, ma di “frequentatori” del mondo dello spettacolo, senza né arte, né parte, come reagiresti? Se e quando ti arrivano proposte del genere, ti poni dei limiti di decenza e rispetto di te stesso, come attore e come uomo? 

Per come la penso io, si tratta di persone che hanno comunque una storia diversa dalla mia e quindi se evidenziano umiltà, desiderio di approfondire, di conoscere, di prepararsi,  non manifesto nessun tipo di pregiudizio. La situazione può esser reciproca e che siano loro a darmi stimoli e ad insegnarmi delle cose. Se queste persone, al contrario, mostrano presunzione o tracotanza rendendo il contesto lavorativo insostenibile, pondererei seriamente sul da farsi. Sai bene quanto, in cucina, il dolce risulti  interessante se sposato al salato; gli accostamenti azzardati possono essere vincenti, ma  vanno fatti con maestria, con misura e tale sperimentazione necessita sempre della sapiente mano di un abile chef. Anche nel nostro lavoro, quando ci sono “accostamenti particolari” è fondamentale un principio d’ordine, un regista. Mi è capitato, in passato, di lasciare degli spettacoli, non perché mi trovassi in disaccordo con i miei colleghi attori (durante le prove si crea sempre una grande solidarietà tra le persone che devono andare in scena), ma perché mi sentivo artisticamente a disagio in assenza di una guida che stabilisse regole comuni atte a creare armonia tra persone di provenienza e formazione differenti. Ho lavorato con attori che venivano dal cinema, dalla televisione o da fenomeni social, individuati dai produttori soltanto per tirar su progetti il più possibile pagati.

Da quali situazioni sei andato via?

Sono andato via, in accordo con la produzione, ad esempio dal Miles gloriosus di Plauto, dove recitavo accanto a Vanessa Incontrada. Vanessa è una persona deliziosa, umile, molto amata dal pubblico. Tra noi, si era creato un bellissimo rapporto, ma non è stato sufficiente per evitare che fossimo, teatralmente parlando, “stonati”. Un’occasione persa, insomma.

Ci siamo conosciuti, Maximilian, perché io ho recensito, stroncandolo, lo spettacolo Fiore di cactus di cui sei il protagonista maschile e, dopo aver letto l’articolo, mi hai scritto che non potevi non onorare il tuo mestiere di attore. Ci spieghi cosa volevi dire?

Salvador Dalì ne Il diario di un genio, scrive che ogni mattina si alzava per lavorare ininterrottamente per otto ore; poi, a fine giornata, valutava le sue opere e, se stimava di aver lavorato male, le buttava via. Ti racconto questo perché non penso che sia sempre possibile creare delle opere d’arte, ma ritengo che sia importante cercare di mantenere una continuità lavorativa onorando una scelta di vita e di lavoro, neanche troppo semplice, fatta, per quanto mi riguarda, quasi trent’anni fa. Ci sono stati dei momenti in cui, in questi anni, avrei buttato all’aria tutto, perché, pur amando moltissimo il mio mestiere, temevo che, non avendo la possibilità di farlo al meglio, avrei rischiato, alla fine, di odiarlo. Oggi, voglio continuare ad avere rispetto delle mie scelte e, sfruttando il mio spirito di iniziativa e il mio costante impegno, mi sono ripromesso di provare a far star meglio ciò che faccio, unicamente perché lo amo. Non parlo di riscatto, ma in un gruppo di lavoro, in un progetto, si può sempre tentare di spingere il risultato verso il massimo della qualità ottenibile in quel momento storico o in quella particolare situazione. Della tua recensione condividevo alcuni pensieri, con altri ero in completo disaccordo, ma credo che la cosa più importante per un attore, sia quella di non gettare mai la spugna. Molti attori del passato, nelle loro carriere, hanno avuto zone d’ombra, ma sono stati grandi quando hanno messo a disposizione le loro capacità, la loro ispirazione, il loro impegno e la loro esperienza in ciò che quotidianamente facevano. In assenza di un’ età dell’oro, cosa fare? Sospendersi? Farsi mettere in una camera iperbarica, con la speranza che, nel frattempo, accada un miracolo? Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray scrive: «chi respinge la battaglia rimane ferito più profondamente di chi vi prende parte ». Condivido pienamente. Io ho deciso di continuare a combattere perché se decidessi di rinunciare, non starei bene. Continuo a studiare, ad approfondire, ad arrivare in teatro per primo e ad andar via per ultimo, ad imparare la parte a memoria, a truccarmi, se il personaggio che interpreto lo richiede… Ho ricevuto questi insegnamenti e non conosco, né voglio conoscere, un altro modo di lavorare. Sai una cosa? Ho scoperto, insegnando, che questo mio modo di concepire il lavoro è contagioso. La passione lo è sempre.

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In trent’anni di carriera, cosa è cambiato nel tuo modo di essere ed esercitare il mestiere d’ attore ?

Un tempo, c’erano dei punti di riferimento potenti: Strehler, Ronconi, Cobelli, Sequi, Marcucci. Non erano soltanto registi, ma veri e propri maestri. Un Maestro ha la capacità di insegnarti un mestiere, non soltato di inserirti all’interno di una regia più o meno buona. Oggi, mi capita di lavorare un po’ di rendita, sono spesso costretto a rifarmi ad insegnamenti ricevuti in passato e soltanto con questi mezzi non sempre riesco a fare un buon lavoro. Mi piacerebbe ricevere nuovi stimoli, ed incontrare personalità teatrali più forti e consapevoli. Quindi per rispondere alla tua domanda, negli anni ho perso un po’ di curiosità. Quello che mi arriva da fuori non sempre la stimola.

Quando vesti i panni del docente di recitazione, vivi il  tuo “ruolo” come una sorta di missione,  un atto di responsabilità nei confronti degli studenti?

Vivo tutto quello che faccio come un atto di responsabilità e nei confronti dell’insegnamento, la mia prospettiva non muta. La materia è delicata. È fondamentale responsabilizzare gli allievi-attori, rendendoli persone consapevoli. La prima cosa che mi interessa sapere, appena li incontro, è che cosa li ha spinti a cercare un’accademia di recitazione. Dalle loro risposte capisco come relazionarmi ad essi e, se percepisco motivazioni narcisistiche o egotiche, mi permetto di indirizzarli altrove. Amo i miei allievi e loro amano me. Sono diventato, per molti di loro, un punto di riferimento. Non ho figli naturali, ho solo figli teatrali che curo moltissimo. Il nostro teatro, il nostro cinema, la nostra tradizione hanno bisogno di gente forte e preparata.

A proposito di tradizione, da alcuni anni, porti a teatro, un tuo spettacolo intitolato Shakespeare, Amore mio. Il Bardo è, per te, un cavallo di battaglia? Perché ancora lui e non un drammaturgo italiano?    .

Shakespeare, come gli antichi tragediografi greci o Čechov, ci parla di emozioni universali: è difficile non amarlo e quasi impossibile non desiderare di rappresentarlo. È un autore eterno, immenso che, a differenza, ad esempio, di Pirandello non è intrappolato nella società o nei personaggi che racconta. Così, approfittando della concomitanza dell’anniversario della sua nascita e poi della sua morte, mi sono concesso la possibilità di approfondirlo scoprendo che il grande Bardo su di me ha un potere assoluto, quasi terapeutico. Mi è stato vicino, come un “amico fedele” in un momento della mia vita tutt’altro che semplice. Mi ha aiutato e sostenuto. E poi Shakespeare fa sognare ed io ho bi-sogno del suo sogno. Trovo che nelle nostre vite noi sogniamo troppo poco.

Quali traduzioni usi?

Le mie.

Inevitabilmente penso a Strehler e alla Tempesta tradotta insieme ad Agostino Lombardo…

Le mie traduzioni si avvalgono della collaborazione di amici che conoscono molto bene la lingua inglese. A distanza di qualche anno, ho aggiunto due nuovi brani: il primo tratto dal Macbeth e il secondo dall’Othello, rendendo lo spettacolo più articolato. Dovrei avere il coraggio di mollare il leggio, perché ormai conosco tutti i testi a memoria ed andare in scena con un recital come quello di Ian McKellen,  visto negli anni Novanta al Piccolo Teatro di Milano, che mi folgorò.

La saggistica, in buona sostanza, continua a sostenere che, in Italia, escludendo Pirandello, Eduardo e Pasolini non ci sono drammaturghi. Prima di loro, Goldoni. Se tu dovessi riscrivere una storia della drammaturgia italiana del ‘900, quali autori annovereresti?

Ѐ veramente difficile risponderti. Tra i contemporanei italiani citerei sicuramente Luca De Bei e Roberto Cavosi, ma dovrei includere anche altri drammaturghi che attualmente scrivono e di cui ho letto testi molto interessanti. In verità parlare di drammaturgia, in Italia, è sempre problematico, non perché non abbiamo avuto uno Shakespeare o un Molière, ma perché anche dei nostri autori più classici, di cui crediamo di conoscerne l’intera produzione, continuiamo a mettere in scena sempre gli stessi titoli. Prendi ad esempio Carlo Goldoni che ha scritto circa duecentocinquanta opere e nei nostri cartelloni troviamo sempre e soltanto le solite dieci. Il fatto è che noi ignoriamo, quasi del tutto, la nostra tradizione. La scuola non se ne occupa, il teatro neanche e il cinema meno che meno.

Alla base di questa vacanza, vi è un discorso economico relativo all’incertezza di incassi sicuri? O la verità coincide, ancora una volta, con la mancanza di tempo e volontà di studiare e rischiare nel proporre delle novità? Forse mancano i tuoi Maestri che avrebbero saputo come fare …

Tutte queste cose assieme. Forse il teatro si è occupato troppo della televisione quando la televisione non si occupava del teatro. Ronconi, regista di teatro, ha sempre lavorato unicamente per un pubblico teatrale e mai televisivo. Diceva: «Chi vuol vedere la televisione se la vede a casa» . Dal punto di vista drammaturgico, spaziava offrendo titoli mai banali, anche quando li prendeva da Goldoni, per il quale non nutriva, come tutti sappiamo, un grandissimo amore. Bisognerebbe ispirarsi a lui per far bene.

Maximilian, quando non reciti, sei più uno spettatore teatrale o cinematografico?

Cinematografico. Sono capace di vedere al cinema due o tre film nella stessa giornata. Sono malato di cinema. Nel buio di una sala, io sto bene perché sono felice in compagnia della mia immaginazione affascinata, stimolata ed appagata. Prediligo i film internazionali e vedo pochissimi film italiani. Trovo che il cinema nostrano si sia oggi ridotto a raccontare storie troppo poco interessanti rispetto al potenziale che invece avrebbe. Dovremmo trattare temi più profondi e necessari e lasciar da parte le commedie  incentrate unicamente su amori non corrisposti, tradimenti e  gelosie. Quanto al teatro, attualmente lo pratico meno: i titoli sono quasi sempre gli stessi e, dopo aver visto, ad esempio, varie edizioni e rivisitazioni de La tempesta, de Il giardino dei ciliegi, de La locandiera e di Medea ad eccezione dei confronti, non mi rimane altro da fare.

Di recente hai visto, qui a Roma, al teatro Piccolo Eliseo, Novantadue scritto da Claudio Fava e diretto da Marcello Cotugno, uno spettacolo di drammaturgia contemporanea dedicato ai giudici Falcone e Borsellino.

Sì, un bellissimo progetto. Un testo necessario. Tre ottimi interpreti. Una regia molto ispirata. Ho goduto. Ho visto spettacoli bellissimi diretti da Marcello che mi piace per il suo modo di lavorare con la musica, di gestire gli attori, di rendere viva e significatica anche una semplice luce. Non propone mai, in un suo racconto, un unico piano. Novantadue è stato un bellissimo viaggio che, malgrado i sold out, è rimasto in scena soltanto cinque giorni.

Quanto stai evidenziando, da un punto di vista organizzativo, penalizza Roma  rispetto ai cartelloni dei teatri di provincia? Potresti provare a tracciare delle differenze significative?

Le programmazioni a Roma non sono molto curate e il gradimento del pubblico non sempre viene considerato. Bisognerebbe tener conto del gusto di spettatori, che in qualche modo, comunque, andrebbero rieducati. È un doppio lavoro, non facile, ma credo possibile e, a questo punto, doveroso. In provincia il pubblico è più di bocca buona, gli spettacoli restano in scena per poche date così tutti corrono a vederlo.

Forse il pubblico di provincia ha ancora l’umiltà di andare a teatro conscio di entrare in un luogo sacro…

Sì, il pubblico di provincia va a teatro per divertirsi, per passare una bella serata e vive l’esperienza come una festa, un momento ludico, di condivisione…A Roma, il pubblico mi sembra sempre più disattento…

Quale sarebbe, secondo te, la cura per rieducarlo?

Rieducarlo…

In che modo?

Occorrono direttori artistici, organizzatori teatrali, uffici stampa coesi al fine di rieducare le menti all’ascolto e alla scelta di un’opera. Quando Ronconi arrivò a Torino, non venne subito capito ed amato dal pubblico. Dopo tre mandati, aveva vinto la sua battaglia: la gente lo adorava e rimaneva in sala per ore ad assistere ai suoi meravigliosi spettacoli. Oggi il pubblico di Torino rimane tra i più educati, sensibili, ricettivi ed intelligenti d’Italia…e questo semplicemente perché è stato ben allevato.

Tornando allora ai tuoi Maestri, da studente, li hai capiti immediatamente, li hai contestati? Qual è stato il tuo rapporto con loro? Quali sono gli insegnamenti che porti  scolpiti nel cuore?

Strehler diceva che se si frequenta una scuola seria e poi si lavora alacremente per dieci anni consecutivi, si diventa attori. Questo vuol dire che anche lui metteva in conto che un insegnamento ha bisogno di tempo per radicarsi. A scuola, in fin dei conti, vengono gettati dei semi che poi, in un modo o nell’altro, germogliano. Sono molti gli insegnamenti che si capiscono solo in un secondo momento: un giorno, inaspettatamente, le parole di un tuo insegnante diventano legge. Un Maestro è un genitore, un padre o una madre con i quali facilmente si entra in collisione. Io non ho avuto un rapporto semplice con i miei insegnanti, ma mi rendo conto, oggi, che il loro compito non era semplice. Quanto agli insegnamenti, al Piccolo Teatro, hanno “fatto” di me prima di tutto una persona e solo in seguito un attore. Mi hanno raccontato che sarei diventato un artigiano e non un artista. Mi hanno fatto capire quanto, per un interprete, la fisicità fosse importante: parlare soltanto dopo che il corpo aveva smesso di raccontare. Vasil’ev, Terzopoulos, Savary, registi stranieri da cui sono stato diretto, dicevano che spesso, gli attori italiani dimenticano di avere un corpo. Si limitano a parlare, a dire, quasi fossero radio ambulanti. Trascinano in scena i loro corpi, che, inutilizzati, diventano pesanti ed ingombranti fardelli. Delegare il compito di raccontare un personaggio solo alla parola è un grandissimo errore.

Potresti illustrare un tuo ideale cartellone teatrale a Roma?

Un mio cartellone teatrale ideale dovrebbe, ad esempio, seguire l’intelligente doppia programmazione del Teatro Nuovo di Verona, dove ho recitato lo scorso dicembre in Fiore di cactus: una rassegna chiamata “Il grande Teatro” è stata dedicata al teatro di prosa e l’altra, proposta con il titolo “Divertiamoci a teatro”, ha abbracciato maggiormente l’intrattenimento. Le persone che volevano distrarsi a teatro, hanno scelto il secondo abbonamento ; quelle che prediligevano il teatro “impegnato” hanno optato per il primo . Trovo molto onesta questa operazione; gli organizzatori hanno scelto di essere chiari nella vendita delle loro proposte evitando che gli spettatori avessero cattive sorprese rispetto a quanto selezionato. Creerei luoghi diversi per programmazioni diverse, rivolte a pubblici diversi. Opterei per una maggiore e meglio organizzata varietà. Teatro di narrazione, teatro di tradizione, teatro sociale, teatro danza, teatro d’avanguardia, teatro di nuova drammaturgia e così via.  Eviterei i luoghi dove si fa un po’ di tutto, per intenderci.

Focalizzando il rapporto teatrale tra la parola ed il corpo, mi è tornato alla mente un libretto di Olivier Py, intitolato Epistola ai giovani attori-Perché sia resa la parola alla parola. Scriveresti anche tu un’epistola per gli attori del futuro in cui inserire i tuoi principi d’ordine? 

Sì, mi piacerebbe farlo. Ѐ un modo come un altro per raccontare la propria esperienza, non perché io pensi di essere interessante come materia di studio, ma perché ritengo bello donare degli appunti e lasciare delle tracce a disposizione di chi verrà. Lo hanno fatto un po’ tutti: Artaud, Kantor, Gassman, Albertazzi, Oliver. Degli artisti che ci hanno preceduto sappiamo troppo poco e questo è spaventoso. Conoscere il percorso di un interprete, il suo repertorio, la sua vita artistica può essere utile ed intrigante per chi desidera intraprendere la carriera dell’attore. Io, ancora oggi, ho bisogno di interfacciarmi con persone che possano regalarmi i loro aneddoti, le loro storie.Un attore deve frequentare, foraggiare, argomentare la propria immaginazione, altrimenti non avrà mai più di un mondo da raccontare. Io sono perennemente alla ricerca di qualcosa che possa darmi un senso di completezza. Per questo desidero dare sempre del mio meglio. Strehler diceva: «Dai sempre il cento per cento, perché in scena ne darai l’ottanta. L’altro venti lo perderai in paura. Il pubblico recepirà il settanta e forse porterà a casa il trenta…»

Al di là di quanto si dia in scena, in fatto di impegno ed energie, non ti sembra che il pubblico, ormai da tempo, abbia smesso di portare, con sé, qualcosa di uno spettacolo?

Ѐ vero. La gente quando è a teatro, non è mai davvero lì davanti a noi che recitiamo. Ѐ rimasta al parcheggio o al bar, ancora immersa nella vita di fuori… Bisogna trovare il modo di portarla davvero in sala, chiedendole di abbandonare, per un paio d’ore, cellulari, computer ecc… per riuscire a volare verso altro.

Quanta importanza dai alla critica giornalistica attuale? Qual è il tuo parere in merito alle recensioni odierne degli spettacoli teatrali?

Se una persona ha un blog o una pagina facebook personale e comunica di esser stata a teatro la sera precedente, sostenendo che lo spettacolo non le è piaciuto, sta esprimendo legittimamente il proprio parere: un blog costituisce uno spazio ludico e, in fondo, una possibilità di raccontare su cui non ho nulla da obiettare. Anzi agevola il passaparola e, quando il parere è positivo, può essere anche utile. La grande critica, scritta da professionisti di cultura su testate importanti, non esiste praticamente più. Sui quotidiani o sui periodici, alla cultura, vien dato sempre meno spazio e questo è un vero peccato. Rimangono le critiche prive di conoscenza, di gusto e spesso di necessità scritte da chiunque, che affollano il web e non rendono un buon servizio né allo spettacolo in scena, né a chi vi prende parte, ma neanche al teatro che ospita. Comunque credo che la responsabilità di ciò, in parte, sia anche da attribuire ad Uffici Stampa privi di attenzione, di amore e di professionalità. Le parole hanno un peso, sono importanti e vanno scelte ed usate con cura ed è da lì che si capisce la qualità di un critico.

Cosa pensi dell’italiano che si parla a teatro? Ritieni che sia una lingua morta?

No, l’italiano non è una lingua morta. Sono gli Italiani che non la studiano  e non la praticano ad essere morti. Nel nostro Paese si legge sempre meno e nelle scuole non si usa più assegnare temi da svolgere. La grammatica è ignota ai più…

In questi giorni (4-6 maggio 2018 n.d.r )è in scena al Teatro Argentina lo spettacolo in sardo barbagino, con sopratitoli in italiano, Macbettu. In un‘intervista rilasciata a Radio3 Suite, il regista Alessandro Serra ha dichiarato  che, per diffondere Shakespeare è più efficace realizzare uno spettacolo in dialetto (in fondo tutti noi ne parliamo uno) che non in lingua italiana, ritenuta “morta”. Sei d’accordo?

Io non ho dialetti: sono nato a Faenza e la mia famiglia, di origine toscana, si è trasferita a Torino. So che il dialetto rende subito più espressivo un attore. Molti registi consigliano di pensare la battuta in dialetto e di pronunciarla in italiano per renderla più viva. Ho visto lo spettacolo di cui parli: è un lavoro molto bello, frutto di una scelta precisa. Mi spiace che il regista si sia espresso a sfavore dell’utilizzo della lingua italiana, pensavo che l’impiego del sardo fosse un modo come un altro per attirare l’attenzione su Shakespeare. Non credo che la nostra lingua sia morta e non ritengo necessario attualizzare i grandi classici: certe trasposizioni possono apparire interessanti, divertenti, ma non sono fondamentali. La sfida più grande è metter in scena i classici, in maniera classica, esaltando l’attualità che contengono.

Fuori dal Bel Paese, a teatro, si assiste a spettacoli di grande successo incentrati sulla scienza, sulla matematica, sulla filosofia… Cosa dovrebbe raccontare, oggi, il teatro, in Italia?

Bisognerebbe raccontare la nostra società, il momento storico che stiamo vivendo. Soltanto così, il nostro teatro, potrebbe essere autentico. Un tempo, si mettevano in scena spettacoli che parlavano di una società passata attraverso la quale si puntavano i riflettori sul mondo contemporaneo con un’operazione di riconoscimento in maniera catartica da parte del pubblico. La catarsi creava un circuito di domande e di risposte volte a superare i problemi. Il discorso coinvolge naturalmente anche i drammaturghi che devono poter raccontare l’epoca in cui vivono affinché il pubblico vi si possa riconoscere. Ciò è successo a Sarah Kane e a tanti altri autori che spesso hanno anticipato i tempi mostrando la loro grandezza.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta, mi hai detto che alcuni registi ti definivano un “cane sciolto”. Che vuol dire? È ancora così? Esserlo è un pregio o un difetto? 

È semplicemente una scelta. Non ho mai voluto far parte di carrozzoni e quando non stavo più bene in una Compagnia (privata o  stabile), me ne andavo. Ho sempre cercato di fare delle scelte di cuore e di stare dove mi sentivo capito. Sono un “cane sciolto” perché, a volte, ho scelto la via meno rassicurante, la più irta. Ho saputo anche sporcami le mani privilegiando progetti miei,  scegliendo  di lavorare con più registi piuttosto che farmi adottare da uno solo.

Vi è un regista con cui avresti desiderato lavorare, ma che per una ragione o per l’altra non hai incontrato sul tuo percorso?

Massimo Castri. Una persona che ho molto stimato. Un grande regista che collocherei senza alcuna remora tra Strehler e Ronconi, perché, in qualche modo, ne rappresentava la sintesi. Aveva la poesia e l’uso del corpo del teatro di Strehler e approfondiva i testi da autentico cultore di parole, come in quello di Ronconi. Il nostro incontro c’è stato, ma è avvenuto in un momento sbagliato. Frequentavo il secondo anno di accademia, al Piccolo, quando, dopo un provino, mi scelse per un suo spettacolo: La Disputa di Marivaux. Essendo ancora studente, la scuola non mi accordò il permesso di prendervi parte. L’anno successivo, ormai diplomato, sostenni diversi provini per la parte di Oreste nell’ Ifigenia di Euripide, ma alla fine Castri scelse Fabrizio Gifuni.

Vorrei ora conoscere la tua opinione in merito a due “casi” teatrali ben poco edificanti risalenti allo  scorso anno, più o meno di questi tempi: il fiasco di Divo Nerone opera rock al Palatino, il cui cast ha lamentato contratti sottopagati  e non onorati e l’affidamento ad Alfonso Signorini della regia di Turandot andata in scena nel 2017 a Torre del Lago. 

Purtroppo oggi accade di non riuscire a lavorare mantenendo il proprio cachet. In passato quest’ultimo, nel tempo, poteva soltanto aumentare. Adesso ci sono  altre consuetudini, spesso poco rassicuranti, ma di questo, in parte, anche noi siamo responsabili. Gli attori, pur di lavorare, a volte accettano condizioni contrattuali disagianti. Ciò non andrebbe fatto, bisognerebbe sempre trovare il modo di lavorare nel rispetto di alcune regole imprescindibili: è sbagliato firmate contratti non adeguati. Nel Divo Nerone molti attori, sebbene abbiano lavorato, non sono stati pagati perché, da quel che si dice, la produzione è fallita. Quindi un’operazione poco riuscita. In merito a Signorini, non mi sento di esprimere un giudizio, perché non ho visto il suo spettacolo. Mi auguro per lui e per chi abbia scelto di vederlo che sia stato strepitoso.

Sei molto legato ad un passato che artisticamente sembra essersi eclissato, ma mi hai detto che quando incontri dei giovani che ti riconoscono li “vampirizzi”. Perché?

Amo i giovani perché rappresentano tutto quello che io non sono più. A vent’anni, ci si affanna per trovare il proprio posto nel mondo e ci si dimentica di vivere in profondità la propria giovinezza. Vorrei tornare indietro nel tempo, per riappropriarmi di quell’energia. Inoltre i giovani sono la mia finestra sul mondo.

Complici le leggi italiane che regolamentano il mondo dello spettacolo, molti giovani attori e registi sono già vecchi a venticinque anni, senza esser carichi di alcuna esperienza.

Non escludo che un regista  poco più che ventenne possa fare un buon lavoro, ma o sei  veramente un genio o hai il dovere, in ogni modo, di  imparare e nutrirti di consigli, esperienze, racconti per formarti e crescere adeguatamente. Nel 1998, a San Miniato, diretto da  Krszysztof Zanussi, ho lavorato nello spettacolo L’uomo che vide. Francesco d’Assisi accanto a Tonino Pierfederici che in quell’occasione recitava  la parte del prete di San  Damiano. Io ho letteralmente saccheggiato Tonino, facendomi raccontare di Visconti, di Zeffirelli e per me era un piacere averlo lì vicino perché “possedevo” il teatro,  lo respiravo… Tonino Pierfederici era stato scelto in quanto aveva interpretato il ruolo di San Francesco, trent’anni prima, ne Il poverello di Copeau diretto da Orazio Costa. Trent’anni dopo, io ero San Francesco e,  accanto a me, c’era un attore che aveva interpretato il mio stesso ruolo. In quell’occasione, nei nuovi panni di San Damiano, diventava  il mio ispiratore…Ho provato un piacere immenso.

nisi san francesco

Molti attori della tua età rifiutano di non essere più giovani, anzi si impongono ancora come tali e, a mio giudizio, non sanno insegnare nulla alle nuove generazioni. 

Io credo che la questione sia legata alla sensibilità personale. Ho sempre avuto interesse per le persone più anziane di me. Quando andavo a recitare a Bologna i miei colleghi alloggiavano in albergo o in residence, mentre io prendevo una camera presso la casa di riposo per artisti Lyda Borelli. Così facendo avevo modo di stare accanto a Leonardo Bragaglia (nipote di Anton Giulio), Franco Scandurra (attore), Giulio Paternieri (produttore), Fulvia Mammi (attrice del Piccolo Teatro di Milano), Bruno (direttore di scena del Piccolo Teatro di Milano), Nadiani (drammaturgo) insomma una marea di persone che hanno fatto la storia del teatro. Per me erano preziosissime,  ma mi rendevo conto che soltanto io nutrivo un simile interesse, i miei colleghi no. Ecco perché ho parlato  di sensibilità. Se prima avevo la necessità di vivere in quella direzione, adesso ne ho bisogno, ma in senso contrario… So di “aver preso” ed ora è giunto  il momento di  “restituire”:la porta dalla quale entra amore è la stessa da cui esce. Io credo che, per il teatro, valga il medesimo principio.

Puoi regalarci una tua personale immagine del teatro?

Il teatro è esattamente come il fiore del papavero: spontaneo e naturale.   Alto, rosso (o bianco)arricchito di meravigliosi semi neri, il papavero, nella sua fragilità, ha grande resistenza. Come il teatro. Cresce ovunque nei migliori giardini, ma anche per strada e nella melma delle nostre vite riesce ad ornare e a farci star bene. Come il teatro. Inoltre sboccia ogni anno e finché ci sarà vita esisteranno i papaveri ed esisterà il teatro.

In un’intervista del 2005   dichiaravi che i tuoi principali obiettivi artistici erano: “fare cultura” e avere un teatro tutto tuo. Hai realizzato, a pieno, questi progetti? I tuoi “sogni”, nel corso del tempo, sono cambiati? Tu sei cambiato?

Sicuramente, sono cambiato: quando ero giovane avrei voluto cambiare il mondo, poi, ad un certo punto, mi sono reso conto che  il mondo stava cambiando me. Comunque cerco sempre, dove posso, di far cultura e il sogno di avere un mio teatro, una mia casa da condividere con infinite anime, permane.

Siamo arrivati al termine di quest’intervista e l’ultima domanda che voglio porti nasce da un dubbio…De André, invitato a chiarirsi in merito al concetto di verità aveva affermato «L’unico esemplare umano con cui oggi posso dire di avere un rapporto di scambio della verità sono io stesso. Diffidate di me.» Maximilian, io e i lettori dobbiamo diffidare di te?

Noi siamo in continuo divenire…quindi la verità più curiosa, di certo terrificante, ma anche molto affascinante è che in realtà non siamo esseri contraddittori o incoerenti: siamo, semplicemente e perennemente, alla ricerca di qualcosa e di risposte sempre nuove. Siamo esseri finiti e proviamo a reperire soluzioni per compensare il momento storico che viviamo. Le domande sono troppo grandi, il momento storico è troppo piccolo. Quindi, in linea di massima, tutto quello che, oggi pomeriggio, ti ho detto, è vero ed è sentito. Magari  le mie parole non hanno un gran significato e non servono a nessuno. Tuttavia cercare continuamente ed aspirare a superarmi quotidianamente mi dà una ragione per essere, per esistere, altrimenti, sinceramente, non saprei cosa fare della mia giornata. Io spero che voi giovani facciate lo stesso, altrimenti la vostra non sarebbe vita, ma sterile sopravvivenza.

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