Presentato alla Quinzaine des realisateurs del penultimo Festival di Cannes, Toglimi un dubbio di Carine Tardieu è una commedia che alterna i toni drammatici a quelli sentimentali per tessere un elogio dei vincoli familiari e della libertà con la quale tali legami possono e devono intesi: in maniera aperta ed inclusiva, affinché ognuno, giovane o vecchio, consanguineo o genitore adottivo, possa e debba esser aiutato ed accolto. Ogni nuovo incontro, pur rischiando di mettere in crisi le certezze maturate nel corso della vita, si rivela così un arricchimento e una possibilità di conoscere meglio se stessi e gli altri.
A più di quarantanni, il vedovo Erwan scopre che l’uomo che credeva suo padre è in realtà un genitore adottivo. Dopo una veloce ricerca, viene a sapere che il padre biologico è il settuagenario Joseph, brevemente frequentato dalla madre in gioventù. A complicare i rapporti familiari tutt’altro che limpidi e cristallini s’inserisce la volitiva Anna, legata sia a Erwan che a Joseph. Ma altre sorprese attendono i personaggi e il quadro che ne sortisce è quello di una famiglia per nulla convenzionale.
Toglimi un dubbio invita, dunque, attraverso il percorso e l’evoluzione compiuta dai personaggi, inseriti in una struttura corale, a superare le diffidenze reciproche e le diversità e a costruire relazioni sincere e solide, basate più che sullo stretto vincolo di parentela, sull’altruismo, sulla volontà e sulla capacità di capire il prossimo. Giunta al suo terzo lungometraggio (dopo La tête de la maman del 2007 e Du vent dans mes mollets del 2012, ambedue inediti in Italia), la regista torna a incentrare l’attenzione sui legami familiari, sul rapporto fra le diverse generazioni e la difficoltà spesso riscontrata a comprendersi. Scoprire di essere stato adottato all’età di quarantacinque anni fa tornare il protagonista quasi un adolescente, se non un bambino, poiché tale rivelazione lo costringe a rimetter in gioco il rapporto col padre adottivo e costruirne uno nuovo con quello biologico, di cui fin a quel momento neppure sospettava l’esistenza ed era per lui un perfetto sconosciuto.
La sceneggiatura della stessa regista crea in tal modo un protagonista complesso e sfaccettato, col quale lo spettatore è invitato a solidarizzare, o almeno a comprenderne la confusione e lo smarrimento. Ma altri personaggi, questa volta femminili, arricchiscono una commedia sempre in bilico fra l’ironia e il dramma: dall’emancipata e determinata Anna (interpretata da una Cécile de France che dimostra tutta la sua versatilità nel passare da un film dell’orrore, come Alta tensione, a un dramma con elementi fantastici, quale Hereafter, a una commedia leggera e brillante e insieme ricca di non banali spunti riflessivi come questa); alla giovane e altrettanto decisa e determinata Juliette, figlia di Erwan, ben ferma nella sua decisione di non interrompere la gravidanza, né particolarmente interessata a conoscere e a rivelare l’identità del padre.
Certo, dietro al ritmo spesso brioso e alla visione aperta e laica della famiglia proposta dall’opera, traspare uno dei temi fondanti del cinema transalpino: l’attenzione all’infanzia e i legami genitoriali, l’invito a una visione più tollerante e inclusiva dei rapporti fra le generazioni, spesso destinate a non comprendersi. Qui si adotta un tono scanzonato e leggero che riesce a far passare temi complessi e delicati senza pesantezza o un eccessivo didascalismo, pur rimanendo ferma ed evidente la prospettiva attraverso la quale la regista osserva la materia della sua opera.
Un film corale, dove ogni personaggio porta in scena i propri dubbi e incertezze, il proprio smarrimento e insieme la volontà e la forza di affermare i propri sentimenti e desideri, anche se si tratta di decisioni capaci di cambiare per sempre il corso della vita, come quella assunta da Juliette. La società, mostra quest’opera, cambia rapidamente, e insieme si modificano di conseguenza i legami che uniscono i genitori e i figli e più latamente le diverse generazioni; al cinema, arte della realtà per eccellenza, il compito di raccontare tale mutamento, senza moralismo ma senza nemmeno rifuggire dall’espressione di un punto di vista autoriale.
In parte su temi analoghi come la difficoltà di comprensione, che può condurre a un’incomunicabilità assoluta, all’interno del nucleo familiare (sempre, si badi, d’estrazione medio o alto borghese), pur con tutte le diversità che rendono ogni opera unica e autosufficiente, si è di recente soffermato il cinema d’Oltralpe in opere di notevole valore quali Tomboy (2011) di Céline Sciamma, il coevo 17 filles di Delphine e Muriel Coulin, L’enfant d’en haut (2012) di Ursula Meier e il più noto Jeune & jolie (2013) di François Ozon. Segno tangibile di una vitalità e di una capacità d’osservazione del reale e del suo racconto cinematografico proprio del cinema francese e che quello nostrano, salvo lodevoli ma purtroppo rare eccezione, sembra aver smarrito. Si pensi, solo per citare uno degli esempi più noti, alla pudica profondità e attenzione con la quale un regista come Lattuada aveva saputo affrontare il tema dell’adolescenza (e in particolare della scoperta della sessualità in quella stagione della vita), nell’ormai lontano 1960, in un’opera esemplare quale I dolci inganni.