Vincitore del premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes ex aequo con Three faces di Jafar Panahi, Lazzaro Felice di Alice Rohwacher è ambientato in un luogo privo di precise coordinate geografiche (se non per velati riferimenti alla Maremma viterbese), in bilico fra dimensioni temporali differenti: il mondo rurale antico, che pare uscito dalle pagine della narrativa verista verghiana e derobertiana e dalla pittura dei macchiaioli, da un lato, e quello contemporaneo, dominato dai telefoni cellulari e da altri segni dell’invadenza della tecnologia, dall’altro. Tale approccio affonda le radici in una tradizione consolidata del nostro cinema, quella che pone al centro gli ultimi, gli emarginati e gli esclusi dalla Storia, lieti di vivere fuori dal tempo, in una dimensione d’eterno presente, retto dalla saggezza popolare e immerso in un tono fiabesco che inclina al realismo magico del cinema dei Taviani, capace di fondere la riflessione critica sul tempo e la sua trasfigurazione lirica e fiabesca.
Nel borgo dell’Inviolata, isolato dal mondo e dal progresso, s’incontrano il villico Lazzaro (Adriano Tardiolo) e il nobile coetaneo Tancredi (Luca Chikovani). La loro amicizia si cementa quando Tanfredi coinvolge Lazzaro in quello che vorrebbe essere solo uno scherzo e che, invece, segnerà un approfondimento del legame fra i due giovani, specie per l’ingenuo ed altruista Lazzaro, il quale riversa sull’amico tutto il suo affetto e innato altruismo.
Al centro dell’opera è dunque l’epos del mondo contadino, di quella tradizione rurale e agricola che tanta parte ha avuto nella Storia del nostro paese (valgano gli esempi letterari e pittorici sopra citati), empaticamente raccontata al cinema da Pier Paolo Pasolini, dai già menzionati fratelli Taviani e da Ermanno Olmi, autori oggi quasi tutti scomparsi, come l’ambiente con tanta partecipazione e vicinanza raccontato nelle loro filmografie.
Il protagonista assume, dunque, con la semplicità e il candore che lo connotano, la disponibilità e l’amore verso il prossimo, la valenza di una figura Christi, vittima di uno sfruttamento inumano, possibile soltanto in un contesto collocato, come si diceva, fuori dalla Storia; e proprio come il modello cui pare informato ed esemplato il protagonista, egli si astiene da qualunque atto di ribellione e di sedizione, vittima, in questo senso, due volte: delle condizioni di lavoro cui lo sottopone la proprietaria della tenuta, prima, dell’inganno col quale Tancredi poi, annoiato dalle comodità e dagli agi offertigli dalla florida situazione economica, lo raggira. Eppure Lazzaro non giudica né condanna gli altri personaggi, siano essi i padroni o suoi familiari, come lui contadini. A essere risorta è, quindi, questa massa di diseredati, sopravvissuti a un sistema produttivo quale la mezzadria, eliminato dal progresso, ma ancora capace d’esercitare la sua egemonia nel microcosmo dell’Inviolata, dove esistono padroni nobili e contadini semianalfabeti, sopravvissuti a se stessi, alla classe sociale d’appartenenza, come lo è la marchesa tenutaria (Nicoletta Braschi), libera di spadroneggiare e d’imporre ai villici una condizione di servaggio medioevale.
Ma la protervia e l’arroganza, par suggerire la regista, non sono appannaggio solo dei ricchi: lo stesso Lazzaro viene sfruttato e maltrattato dagli altri contadini, che approfittano della sua bontà d’animo e ingenuità, della sua innocenza primigenia. L’Inviolata (il cui nome esprime da sé la caratteristica precipua che ne garantisce il funzionamento), se da un lato si colloca aldilà delle leggi storiche e dalle norme giuridiche che abolirono oltre quattro decenni or sono la mezzadria, dall’altro, almeno per voce della padrona, preserva i lavoranti dall’acquisizione di una coscienza di classe e dall’emancipazione che essa comporta. Li preserva, dunque, dall’ingresso a pieno titolo nella Storia, coi mutamenti inevitabili che un tale passaggio porta con sé. Quello dell’Inviolata è un ambiente, sì, di sfruttamento e di servaggio, ma anche capace d’offrire a quegli stessi sfruttati una, quanto si vuole perversa e aberrante, forma di protezione dal progresso che s’affaccia dal mondo esterno. Si tratta di un mondo statico, astorico, antitetico e contrapposto a quello dinamico e cangiante della Storia e del Divenire. L’ideologia cui s’ispira la marchesa, personaggio centrale del dramma quanto Lazzaro e Tancredi, è basata su una sorta di paternalismo che vede, e conseguentemente tratta, i suoi sottoposti alla stregua di servi ed esseri inferiori, ritenuti incapaci di reggere all’urto del progresso, che spezzerebbe d’un colpo tradizioni secolari. Ma al contempo come figli da proteggere dalla minaccia (quella tale ritenuta, almeno, dalla marchesa) di quello stesso progresso che ne muterebbe radicalmente le condizioni e le abitudini di vita, sconvolgendone l’esistenza, improntata, appunto, a tradizioni che affondano le radici nell’età medioevale, quando i contadini erano sottoposti al volere e all’arbitrio del signore.
Per questi personaggi pare non esservi scampo: se ingiusto è il servaggio cui soggiacciono all’Inviolata, altrettanto lo è quello che subiscono, una volta giunti in città, nel mondo della Legge e del progresso, i rappresentanti delle conquiste che avrebbero dovuto emanciparli dalla secolare condizione di schiavitù loro inflitta. Lazzaro si configura, come scrisse Cesare Pavese, quale barbaro che s’inurba, apolide in un mondo, cittadino e proletario, che finisce con l’avvilirne la condizione sociale, esattamente come avveniva nell’ambiente chiuso e astorico dell’Inviolata. A riscattare la sconfitta patita dal protagonista soccorrono elementi ricorrenti, quali la luna intensamente fissata da Lazzaro e il lupo che ricompare nella città, che si caricano di valenze fantastiche o, più propriamente, da realismo magico, a indicare quanto il solo possibile riscatto per il protagonista non venga dal mondo terreno, sia esso urbano o rurale, ma da simboli ed emblemi – la luna e il lupo – che traspongono l’opera da un approccio che vuol porsi come indagine e disamina critica della nostra Storia, anche su di un piano magico e fantastico, al di sopra e aldilà delle miserie terrene esperite da Lazzaro.
Unico e solo conforto paiono, quindi, questi due elementi, che assumono un valore capace di trascendere la realtà cruda e disumana vissuta dal protagonista. Il mondo animale e quello astronomico, lontani eppure vicini all’uomo, sembrano recare esclusivo sollievo a chi si ritrova sconfitto ed emarginato dalla storia. Un genere, quello del realismo magico, che informa in particolare una delle più belle e riuscite opere dei Taviani (e consente qui di rivolgere un omaggio al recentemente scomparso Vittorio), Allosanfan (1974): qui, accanto all’analisi critica della sconfitta dei movimenti giacobini in Italia e del riflusso conservatore che attraversava anche i nobili illuminati che alla Rivoluzione avevano aderito e partecipato (come il protagonista Fulvio Imbriani interpretato da un Marcello Mastroianni in stato di grazia), si accostavano elementi tipici del realismo magico, come i diversi colori con i quali il protagonista vedeva i parenti presso cui era tornato ad abitare nella dimora avita (per mezzo di un uso empatico del colore); attraverso un esempio preso, anche qui, dal mondo animale, dall’apparizione del rospo che spaventa il bambino di Fulvio, elemento fiabesco che conferisce all’opera quella capacità d’indagare la storia collettiva e insieme quella individuale, o meglio, i riflessi della prima sull’interiorità dei personaggi, in primis ovviamente del protagonista. Alice Rohwacher dimostra con questo suo ultimo film d’aver assimilato e fatto propria la lezione proveniente da questi maestri e lascia certo ben sperare per il futuro del nostro cinema.