La fuga è, sì, arte. Espediente che si impara da bambini e si affina col tempo, prima per necessità e poi per convenienza. Una tecnica che si rafforza con l’età per non precipitare nella catastrofe, come ha teorizzato tempo fa Henry Laborit. Ne sanno qualcosa tutti i personaggi di questo secondo film di Brice Cauvin (adattamento del romanzo americano di Stephen McCauley) che compongono un ritratto di famiglia in più interni parigini. Ambienti chiusi, tanto che uno di loro si ritrova a dormire nello spazio ristretto di uno sgabuzzino, con l’alibi del mal di schiena, per sfuggire (neanche tanto elegantemente) ai doveri della sua coppia omosessuale. Legami forti e confini deboli tra fratelli, o tra genitori e figli, sono la base di questa narrazione ordinaria, che non ha la pretesa di farsi straordinaria a tutti i costi, ma che può far riflettere.
Gli attori sono bravi e misurati: Laurent Lafitte è Antoine, che ci regala per fortuna qualche esterno parigino attraversato in bicicletta. È lui che dorme solo, stanco della relazione con il suo compagno che dura ormai da dieci anni. Lunga anche quella tra il fratello Louis (Nicolas Bedos, regista del recente Un amore sopra le righe) e la bellissima fidanzata Julie. Invece, il primogenito Gerard (un Benjamin Biolay, qui appesantito e imbruttito) è distrutto dalla fine del suo matrimonio. Per due che vorrebbero lasciare uno che viene lasciato, due che faticano a svignarsela, uno che insegue, ma anche lui fugge dalle responsabilità: il lavoro o l’accettazione del reale, ormai immodificabile.
I tre fratelli si vedono spesso, si telefonano e si cercano, ma il più delle volte per proiettare l’uno sull’altro le frustrazioni, le irresolutezze. Soprattutto Antoine e Louis, che si trovano nella stessa identica situazione, anche se ciascuno non ammette di vedersela rispecchiata così sfacciatamente. Nei confronti di Gerard hanno entrambi un atteggiamento protettivo, soprattutto Antoine, che ha lo sguardo più disincantato nei confronti della famiglia.
Madre e padre (Marrie-Christine Barrault e Guy Marchand) sono il sunto degli errori genitoriali portati all’eccesso: invasività, preferenza smaccata per uno dei figli, doppio legame, ricatti affettivi, scelte esistenziali da non guardare come esempi per diventare grandi. E, infatti, Antoine Louis e Gerard grandi non lo sono ancora, tanto da vivere intorno ai quarantanni storie di formazione decisamente tardive. Il film ci mette di fronte all’alternativa umana di sempre: guardare in faccia la realtà o evaderla. Nella seconda ipotesi, si incontreranno davvero rive sconosciute? Le acque torneranno davvero calme, come ipotizzava Laborit?
Il personaggio più bello è quello dell’amica Ariel (Agnès Jaoui, vista l’anno scorso in Cinquanta primavere) non invischiata nelle dinamiche familiari, che sa portarsi addosso i chili in più e le scelte sentimentali (fallimentari) del suo passato. Se, come dice il regista, il cuore della storia sono i rimpianti, migliori dei rimorsi, Ariel, meglio di tutti, è capace di riconoscerli, di dare loro un nome, in una consapevolezza dalla quale gli altri sono parecchio lontani.
Insomma, ci sono tutti gli elementi per fare di questo film una commedia densa, oltre che garbata e rilassante, se pure i temi scomodino i nostri più antichi timori, le scelte rimandate e i difficili accomodamenti. Eppure, proprio nella seconda parte e verso la fine, dopo un esordio e un primo tempo più vivace, sembra che la tensione si allenti, e le vicende di ognuno perdano un po’ di tono. Non risulta poi così importante, per lo spettatore, che ha seguito le storie di ciascuno immedesimandosi, sapere chi tradisce e mente, chi svela i segreti o li trattiene, chi va e chi resta. La conclusione, anche originale, almeno per uno dei fratelli, arriva nel momento in cui si è smesso di aspettarla.