Lo stile di Abdellatif Kechiche è sempre lo stesso. Il suo è un cinema che si getta orgogliosamente in situazione, stando addosso ai personaggi, cercando di carpirne meravigliosamente il segreto o, per lo mento, di intuirlo: i corpi, i volti e i dialoghi splendidamente ordinari, ma proprio per ciò assolutamente autentici, impongono allo spettatore di mutare lo sguardo, di sprofondare nelle immagini dilatate, nel tempo riformato, divenuto durata, flusso, in cui scorrono le emozioni, la vita, sempre inafferrabile, eccedente, sinuosa, magnifica. L’ordinario sconfina nello straordinario, gli istanti si espandono, si allargano a dismisura, facendosi abisso da contemplare o in cui precipitare. In questo senso, si può senz’altro essere d’accordo con il regista quando definisce il suo cinema ‘gioiosamente anarchico’, uno spazio di libertà in cui pensare diversamente, smarcandosi dalle consuete prospettive di osservazione.
Mektoub, My Love – Canto Uno è evidentemente sostenuto dalla potenza del desiderio, che informa le varie inquadrature che si succedono, donando all’insieme una fortissima carica vitale, che non può lasciare indifferente lo spettatore, il quale ne viene travolto. Un desiderio, però, che non è quello del ‘soggetto’, piuttosto un ‘desiderio in sé’, prima che si traduca e venga tradito dal linguaggio. Il desiderio, in tale accezione, non è solo quello dei corpi (e in questo senso Kechiche non si risparmia, mostrandocene la bellezza commovente, quella pura e splendida della gioventù ansiosa di vita), ma anche di ciò che li trascende, che è fuori campo, invisibile e destinato a rimanere tale. Allora, il mite protagonista, Amin (Shaïn Boumedine), un ragazzo che ha abbandonato il corso di medicina per dedicarsi completamente al cinema (è un aspirante sceneggiatore), incarna l’altra faccia del desiderio, quello non scaturito dall’agitazione dell’Io, svincolato dalla rappresentazione, in direzione di qualcosa che non è davanti allo sguardo, ma, semmai, dietro a esso, un oggetto che anziché costituire il fine è causa del desiderio stesso.
La scena più significativa del film di Kechiche è, infatti, quella in cui vediamo il giovane nell’atto di fotografare, assai poeticamente, le nascite di alcuni agnellini: è come se cercasse di comprendere il miracolo della vita, percorrendo eroicamente uno spazio sacro il cui accesso è di norma interdetto. È l’innocenza del desiderio, prima della sua corruzione, della deiezione: eppure assai coerentemente, e munito di un senso di pietas verso l’umanità che mette in scena, il regista non giudica mai i suoi personaggi (Toni, per esempio, sempre alla ricerca di un nuovo corpo d’amare), laddove ben comprende che i differenti modi d’agire non devono essere ordinati all’interno di una scialba scala gerarchica, poiché ciascuno ha pari dignità ontologica (l’autentico e l’inautentico sono due momenti imprescindibili di un unico spazio-tempo). Essenza ed esistenza confluiscono in un vitalismo che le ricomprende entrambe, senza metterle in rapporto dialettico, bensì giustapponendole.
Lo sguardo di Kechiche non s’installa mai in una posizione precisa, è come se fosse in mezzo ai personaggi, in una, si potrebbe definire, prospettiva soggettiva-oggettiva attraverso cui fare segno all’invisibile e al non detto, facendoli risuonare su tutto ciò che ha trovato corpo ed espressione, poiché, altrimenti si perderebbe un ‘pezzo’ imprescindibile di realtà, cui non si può, a rigore, rinunciare.
Tratto liberamente da La ferita, quella vera di François Bégaudeau, e dopo aver partecipato al concorso della scorsa Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Mektoub, My Love – Canto Uno sarà nelle sale italiane dal 24 Maggio, distribuito da Vision Distribution.