Lo confesso subito: quando ho visto per la prima volta Atlanta, con un binge wathcing forsennato per non farmi cogliere impreparato dalla seconda stagione, non è stato un colpo di fulmine. Preparato da una valanga di recensioni positive, da due Golden Globes e da un Donald Glover che è impossibile non amare, non ero forse pronto per un serial così stringato eppure così sofisticato, da una comedy (perchè in fondo il genere è quello) così pensata, talmente scritta -bene-, mescolata abilmente al dramma e ad un sottotesto politico mai banale e molto, molto poco percettibile ad un primo sguardo.
Perché Atlanta è così: opera sfaccettata e sfacciata, una dramedy (se proprio non si può fare a meno di mettere etichette) che mette al centro persone e non personaggi di fronte alle difficoltà della vita vera. Problemi economici, incomprensioni familiari, e visto che l’ottica è declinata attraverso l’etnia black anche la costante, americanissima paura della polizia.
Al centro di tutto poi c’è lui, l’Earn che ha le fattezze sensuali e beffarde di Glover, punta di diamante della serie che fa della battuta pungente e sottile il suo punto di forza.
La prima stagione di Atlanta è infatti tutta idea della mente di Glover: e se la città del titolo, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere al centro delle vicende, diventa alla fine la cornice del racconto disilluso e romantico proprio di Earn, motore centrale di ogni disavventura a cui si assiste. La periferia e i quartieri popolari diventano personaggi, e la serie si rivela totally black anche per come affronta la quotidianità dei suoi protagonisti messi difronte a discriminazione e pregiudizi, ma anche e soprattutto al centro della cultura rap.
Glover negli Usa è noto con lo pseudonimo di Childish Gambino, nome con cui si cala nei panni di uno degli artisti più interessanti della scena attuale rap: scelta quindi mai così centrata, perchè l’autorappresentazione della comunità afro di cui Atlanta è fieramente portabandiera non poteva che passare da quella forma artistica che da sempre, nel bene e nel male, definisce la cultura nera: la musica, appunto.
Reale e surreale si scontrano e si fondono, spezzettando in piccoli quadri narrativi, quasi delle istantanee, la vita vera dei sobborghi in una ricostruzione funzionale alla resa di alcuni paradossi.
Atlanta alla fine è quindi innovativa nella struttura, libera nel sottotesto, sempre al limite con una tragedia mai messa in scena ma sempre sfiorata e trasmutata in boutade: serial personalissimo e intimo, che con toni mai urlati e senza essere mai inutilmente plateale racconta le macerie dell’America a quasi un decennio dopo il sogno di Obama. Per mostrare cosa di quel sogno è rimasto, dopo che si è scontrato con una realtà più dura di lui che l’ha frantumato, e che si è sgretolato e i dissolto proprio come un bel sogno, prima dell’alba.
di GianLorenzo Franzi