Il ritorno di Lars Von Trier a Cannes ha il sapore di una falsa provocazione. Rientrato al Festival dalla porta secondaria (fuori concorso) dopo le polemiche suscitate nel 2011, al tempo di Melancholia con i suoi giochini linguistici sul nazismo, il regista danese presenta la propria vuota e inutile summa sul male, dai discutibilissimi esiti etici ed estetici.
Siamo negli anni ’70 e Jack (Matt Dillon, un mostro nel vero senso della parola, onore alla sua recitazione) è un ingegnere serial killer, frustrato dalla mancanza di creazione. Un architetto, questo avrebbe voluto essere. Solitario, pazzo, schiavo del DOC (disturbo ossessivo compulsivo), manipolato dall’ordine e dalla pulizia, riproduce la sua esigenza insoddisfatta di creazione tentando di progettare e costruire la casa dei suoi sogni, nel parallelismo dei cd. ‘5 incidenti’, con l’obiettivo di dare vita, per ogni omicidio, a un’opera d’arte. L’unico interlocutore è il suo alter ego Verge (Bruno Ganz, che avrebbe dovuto rifiutare di metterci la faccia e la propria grandezza in questo film), col quale instaura una conversazione immaginaria, il solo complice e conoscitore della vera essenza di Jack.
Dentro un visivo da ritorno alle origini, Von Trier gioca sadicamente al gatto e al topo con noi che lo guardiamo. Un gioco fine a se stesso. Nel nero e cupo scenario carico di una fotografia pastosa, asettico nell’implacabile camera a mano, galleggia il furgoncino rosso, mezzo del male che cattura le vittime del caso e le aggiunge, cadaveri, nell’agghiacciante magazzino-cella frigorifero. Le morti e le amputazioni, i trattamenti sui corpi, le pose sadico-artistiche fissate nella macchina fotografica, le regole della caccia inflitte ai bambini, la misoginia rimarcata: “Le donne sono più collaborative nel subire violenza“, Glenn Gould, il nazismo nell’astrazione di un male razionale e addirittura ‘affascinante’: “il sublime suono implacabile della Luftwaffe in picchiata“, l’arte come chiave di lettura anche di crimini e nefandezze putridissime, colano dentro un calderone compiacente, nel quale, fotogramma dopo fotogramma, Von Trier ci mostra quanto gode nel calarsi e nel calarci dentro le sue ossessioni, nel proprio abisso.
La riflessione di The House That Jack Built dimentica che teorizzare sadicamente e in maniera compiaciuta, senza freni visivi, sul male mai sperimentato né subito di persona, portarlo ad altezze troppo vertiginose, tentando di razionalizzarlo, di ‘purificarlo’, è un’operazione, anche artisticamente, destinata al fallimento.
Per giunta presuntuosa, perché denota i limiti di un artista incapace di mettere i necessari paletti per evitare di abbagliarci nel nero, senza averne un discernimento più vicino alla sua essenza. La discesa agli inferi a cui Verge-Virgilio conduce Jack, un inutile postilla. Il peggio è avvenuto e nulla può giustificare il gioco del male a cui Von Trier ci ha sottoposto.