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Film da Vedere

RaroVideo rende disponibili, per la prima volta in home video, due significative opere del regista ungherese Miklós Jancsó

Nè realista nè anti realista, il cinema di Miklós Jancsó si colloca in una posizione intermedia, laddove il regista ungherese riteneva che imporre allo spettatore la sospensione di incredulità fosse la prerogativa di un cultura borghese mendace e affabulatrice

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RaroVideo conferma ancora una volta grande lungimiranza rendendo disponibili in home video, per la prima volta in Italia, due film particolarmente significativi di Miklós Jancsó, regista e sceneggiatore ungherese attivo negli anni Sessanta e Settanta (ma anche successivamente), fautore di un cinema politico che, partendo dalla ricostruzione libera di alcune vicende storiche, ha saputo dotarsi di una specifica cifra stilistica.

Ne I disperati di Sandor (Szegénylegények1965) e L’armata a cavallo (Csillagosok, katonák, 1967) i fatti messi in scena sono volutamente non troppo aderenti alla realtà di quanto effettivamente accadde: nel primo film c’è l’Ungheria del 1860, una nazione ritratta, dunque, all’epoca dell’inizio del processo di industrializzazione. All’entusiasmo borghese per la prospettiva di benessere che si profilava all’orizzonte corrispondeva la persistenza di un grave stato di indigenza di alcune ampie fasce della popolazione, in particolare, ovviamente, i contadini, i quali non solo non si giovarono dell’annunciata ventata di progresso, ma videro peggiorare le proprie condizioni di vita in seguito a una pesante carestia. Per tale motivo, nacquero sacche di ‘resistenza attiva’, che furono denominate I disperati di Sandor, dal nome del loro condottiero. Ne L’armata a cavallo Jancsó torna indietro, all’alba della Rivoluzione Russa, nel 1918, per raccontare, a suo modo, la partecipazione del proprio paese alla definitiva realizzazione di quella svolta epocale, con tutte le implicazioni che comportò (in particolare gli scontri tra rossi e bianchi che si protrassero sanguinosamente per lungo tempo al confine con l’Ungheria).

In entrambi i film la realtà viene rappresentata non alla classica maniera realista, tipica di tanto cinema che si era (e si è) confrontato con la necessità di testimoniare la Storia; neanche in maniera anti realistica, però. Il cinema del regista ungherese si colloca in una posizione intermedia, laddove Jancsó riteneva, con eroica coerenza, che imporre allo spettatore la sospensione di incredulità fosse la prerogativa di una cultura borghese mendace e affabulatrice. In questa prospettiva, dunque, si trattava di creare una giusta distanza tra pubblico e film, per permettere il mantenimento di un opportuno spirito critico che consentisse di interpretare lucidamente, al riparo da un trasporto emotivo fuorviante, il senso e le ragioni di quanto veniva ricostruito attraverso la rappresentazione cinematografica. In effetti, pensandoci bene, tutti quegli autori che spesso hanno rivendicato e decantato la verosimiglianza del loro cinema alla realtà hanno trascurato, al tempo stesso, di riconoscere l’impossibilità di evitare, per quanto ci si sforzi, la naturale interpretazione dei fatti che scaturisce dalla necessità di riferire un Evento: insomma, la traduzione comporta sempre un tradimento. Conscio dell’insuperabilità di questa premessa, Miklós Jancsó ha tentato (riuscendoci in taluni casi) di dare corpo a un cinema minore, un cinema cioè anti spettacolare, non borghese, militante che, tramite la narrazione di alcuni episodi decisivi della Storia del proprio paese, fosse in grado di veicolare un preciso contenuto politico da destinarsi al pubblico senza alcuna mistificazione. La riduzione all’osso dei dialoghi nei suoi film conferma quanto egli volesse sottrarsi al pericolo di fornire ulteriori elementi di discernimento che non avrebbero fatto altro che alterare l’integrità della riflessione proposta. ‘Ridurre’ la messa in scena alle sole immagini in movimento – tra l’altro, Jancsó fece un massiccio utilizzo del piano sequenza, anche per motivi di rapidità di ripresa – era l’unica maniera per tentare di influire il meno possibile su ciò che veniva rappresentato.

Inoltre, è da segnalare, che, coerentemente rispetto alla sua idea di cinema, il regista, sebbene abbia spesso raccontato vicende che provocarono non pochi spargimenti di sangue, tenne sempre tenacemente fuori campo l’orrore, proprio perché il ricostruirlo, il riferirlo visivamente, avrebbe comportato un’esecrabile collusione con la logica della spettacolarizzazione (degenerando in quello che si potrebbe definire, per l’appunto, imbellettamento dell’orrore).

Chi scrive, in questo senso, non può omettere di far notare quanto il tanto osannato Schindler’s List di Steven Spielberg, per quanto mosso dai più nobili intenti, abbia abusato pesantemente e forse anche un po’ volgarmente di tale discutibile atteggiamento rappresentativo, a differenza, invece, dell’ottimo Il figlio di Saul di Laszlo Nemes, anch’esso ungherese, in cui, pur penetrando all’interno dei campi di concentramento, si è evitato di mostrare ciò che, quantunque non filmato, è arrivato chiaramente, sul piano emotivo, allo spettatore, senza, tuttavia, compiacere la diffusa bulimia contemporanea dello sguardo.

Per questi motivi il cinema di Miklós Jancsó merita oggi più che mai un’attentissima rivisitazione, attraverso cui recuperarne lo spirito, il furore, e soprattutto, il rispetto per il pubblico, caratteristica, quest’ultima, imprescindibile, ma che attualmente pare sempre più rara.

Pubblicata da RaroVideo e distribuito da CG Entertainment, la Collezione Miklós Jancsó è disponibile in un box con due dvd e un booklet a cura di Bruno Di Marino.

Trova Collezione Miklós Jancsó su CG Entertainment