Fra i film in competizione impegnati a raccontare storie di orrore, ordinario e straordinario, che hanno colpito le donne per vari motivi – in questo caso per una guerra che si potrebbe definire genocidio – va segnalato anche Les filles du soleil, della regista francese Eva Husson (già nota per Bang Gang), film non del tutto riuscito cinematograficamente parlando, ma lodevole per la tematica portata alla luce, relativa alla nascita e alle vicende di un gruppo di donne guerriere nel Kurdistan iracheno, le quali, dopo aver subito inenarrabili violenze e riduzione in schiavitù, hanno imbracciato i fucili contro gli oppressori.
Sul tappeto rosso di Cannes sono sfilate ben 82 donne la sera dell’anteprima del film e la regista è apparsa davanti ai giornalisti accompagnata dalla produttrice Didar Domehri e dalle tre attrici protagoniste Golshifteh Farahani, Emmanuelle Bercot e Zübeyde Bulut.
Les filles du soleil è prevalentemente una storia di donne che hanno conosciuto l’abisso, la paura e il coraggio, e che, spinte da obiettivi diversi, cercano una strada per ricominciare a vivere: è la storia di Bahar, un avvocato curdo yazidi, rapita dagli uomini in nero, che le hanno ucciso il marito e la sorella e rapito il figlio, e che, dopo essere stata violentata e ridotta in schiavitù per mesi, riesce a fuggire e raduna un commando di soldatesse per riconquistare la sua città in Kurdistan con la speranza di ritrovare suo figlio; è la storia di Mathilde, una giornalista francese che ha perso, nei suoi reportage di guerra, un occhio e l’uomo che amava, e che si unisce al battaglione per coprire l’offensiva e per testimoniare la storia di queste eccezionali guerriere; è la storia di Layla, compagna di schiavitù di Bahar, che, incinta al nono mese, fugge con l’amica mentre le si sono già rotte le acque e partorisce in terra, al confine, dopo aver fatto l’ultimo estenuante passo verso la libertà, e muore pochi giorni dopo per coprire Bahar in un’azione di guerra.
Tutti i vissuti e le storie di queste donne si mescolano nel loro grido di guerra, per una stessa causa: “Donne, Vita, Libertà”. Il film pecca purtroppo di retorica nei dialoghi, nella regia e in genere nel modo di porgere un messaggio per altri versi giusto e sacrosanto, e molte scene sono accompagnate da una musica ridondante. Eva Husson ha raccolto molte testimonianze per raccontare la sua storia, direttamente ispirata a eventi recenti che hanno coinvolto 7000 donne e bambini, usati come beni sessuali, torturati e venduti come schiavi. La guerra in quanto tale non è per Eva Husson il cuore del film, ciò che le interessava era cogliere in essa il coraggio delle donne contro un sistema che le ha umiliate e traumatizzate. La regista, che aveva dedicato il suo primo film “a tutte le femministe di ieri e di oggi”, ha scelto come interpreti la bella (forse troppo) attrice iraniana Golshifteh Farahani, nei panni di Bahar, e la francese Emmanuelle Bercot (Premio di interpretazione nel 2015 per Il mio re), nel ruolo della reporter di guerra.
“Quando ho sentito parlare di queste donne curde e ho approfondito il soggetto – ha raccontato la regista – ho scoperto l’ideale marxista dei combattenti curdi che lottano per una terra che non è assicurata. Ho trovato in questa tragedia contemporanea il modo di esprimere i desideri narrativi che avevo da molto tempo. L’interrogativo della lotta per un ideale, la ricerca di un significato: c’è stato un percorso politico nella scelta di fare questo film. E poi, naturalmente, c’era qualcos’altro, di ancora più potente: la storia delle donne combattenti, catturate dagli estremisti, fuggite in circostanze terribili e che si impegnano finalmente a combattere i loro rapitori. Irradiava da questa storia una forza che mi ha superato, qualcosa che doveva essere detto. E mi interessava il viaggio emozionale dei miei personaggi. Quando ho parlato con il mio produttore, mi ha immediatamente seguito”.