Il racconto dei racconti, un film a episodi del 2015 diretto da Matteo Garrone, al suo primo film in lingua inglese, vincitore di sette David di Donatello. La pellicola è l’adattamento cinematografico della raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, pubblicata postuma tra il 1634 ed il 1636. Presentato al Festival di Cannes 2015 riceve una tiepida accoglienza alla proiezione della stampa e sette minuti di applausi a quella del pubblico. Il budget del film è stato di circa 14,5 milioni di dollari. Con Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones, John C. Reilly, Christian Lees, Jonah Lees.
Sinossi
C’era una volta un regno, anzi tre regni vicini e senza tempo, dove vivevano, nei loro castelli, re e regine, principi e principesse. Un re libertino e dissoluto. Una principessa data in sposa ad un orribile orco. Una regina ossessionata dal desiderio di un figlio. Accanto a loro maghi, streghe e terribili mostri, saltimbanchi, cortigiani e vecchie lavandaie sono gli eroi di questa libera interpretazione di tre delle celebri fiabe tratte da Il Racconto dei Racconti di Giambattista Basile.
La recensione di Taxi Drivers (Luca Biscontini)
Innanzitutto, per parlare dell’ultimo film di Matteo Garrone bisogna togliersi di dosso l’insopportabile puzza di provincialismo tipica del cinema italiano e anche di tanta critica cinematografica. Il fatto che questo lungometraggio nasca come operazione internazionale e si rivolga a un pubblico più vasto della platea nostrana non costituisce un elemento aprioristicamente a suo favore. E neanche la circostanza che sia costato 12 milioni di euro fornisce un indicatore della sua bontà. Tanti (troppi) si sono immediatamente inchinati di fronte alla magnificenza della dimensione produttiva, trascurando, a parere dello scrivente, di elargire un’analisi attenta o quanto meno svincolata da valutazioni non pertinenti.
Si, Il racconto dei racconti colpisce per l’accuratezza della realizzazione, dalla fotografia, che rievoca in maniera efficace la dimensione favolistica, agli ottimi e sontuosi costumi, dalle scenografie naturali e non alla recitazione degli attori (il cast è, ovviamente, anch’esso internazionale, con Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones e John C. Reilly), e tutto è orchestrato con padronanza e maturità dal regista, al quale va certamente riconosciuto il merito di non essersi fatto prendere la mano, lasciandosi trascinare in un’operazione di emulazione, con budget più limitato, dei fracassoni fantasy hollywoodiani.
Detto questo, che non è poco, non si può evitare di porsi una domanda: perché Matteo Garrone ha sentito l’esigenza di sconfinare nel territorio minato del fantasy? Sembra quasi che l’autore del fortunato Gomorra (ma anche dei bellissimi L’imbalsamatore e Primo Amore) viva uno stato di perenne ansietà creativa, come se fosse ossessionato dal continuo bisogno di realizzare un’opera nettamente differente dalle precedenti, tentando di spiazzare gli spettatori e forse, anche di più, se stesso. Insomma, era proprio necessaria questa incursione in un genere cinematografico così esautorato dalla produzione compulsiva della fabbrica dei sogni statunitense?
Il film è interessante, attraverso la dimensione favolistica fa segno a questioni universali, quali la maternità, l’amore (ma più in particolare il desiderio), il terrore di invecchiare (tema questo, come si è in più luoghi evidenziato, attualissimo), intrecciando le questioni in un montaggio che le mette in comunicazione, rivelandone i punti di contatto; eppure non riesce a catturare fino in fondo l’attenzione, non possiede una visionarietà che ecceda il vincolo della rappresentazione, non emoziona mai davvero, e il tutto sembra ristagnare in un desiderio di stupire a tutti i costi lo spettatore.
Certo, è bello il rosso-sangue del cuore che la regina di Selvascura (Salma Hayek) divora, facendo affidamento sulle proprietà magiche che tale alimento possiede (nella fattispecie le dovrebbe procurare una gravidanza), ma è una trovata (anzi, a rigore trovata non è perché il film è una libera trasposizione de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile) che sembra architettata proprio per provocare un’immediata reazione, per incantare lo spettatore della domenica, per piacere a tutti i costi, senza proporre un’elaborazione realmente meditata dell’immagine. Forse, se Garrone non avesse dovuto accollarsi il peso che una produzione così fastosa impone avrebbe potuto costruire un film più sincero, meno accattivante, non ossessionato dall’esigenza morbosa di un fulmineo quanto inconsistente gradimento.
Il racconto dei racconti mantiene, come si era prima evidenziato, un tratto autoriale marcato, proprio perché il regista ha fatto resistenza, non si è voluto far sussumere totalmente, eppure l’operazione nel complesso appare ‘in-bastardita’, artificiosa, senza piglio, poichè non si è raggiunta quella destoricizzazione degli eventi rappresentati capace di donare un respiro universalizzante. Forse già la sequenza iniziale di Reality conteneva i prodromi dell’opera successiva del regista romano, ma lì c’era un’idea di cinema, e, in certi passaggi, una capacità di costruzione dell’immagine non indifferente (esemplare a tal punto era la scena in cui il protagonista si produceva in uno scambio di sguardi con un grillo entrato casualmente in casa).
Queste considerazioni non vogliono occultare quanto di buono c’è ne Il racconto dei racconti, ma nascono dall’esigenza di tracciare una critica che non sia miope rispetto a ciò che di questo film funziona meno, e che, se non ci si è ancora ‘irregimentati’, bisogna segnalare.