Isola 10, un film cileno di Miguel Littín. Il film è tratto da Isla 10, libro autobiografico in cui Sergio Bitar racconta la sua esperienza di prigioniero politico ai tempi del golpe di Augusto Pinochet. In seguito al golpe cileno del 1973, infatti, diversi membri del governo Allende vennero incarcerati in uno speciale campo di detenzione sull’Isola Dawson, nell’inospitale e gelida Terra del Fuoco. Il film è stato nominato come “miglior film straniero in lingua spagnola” alla 24ª edizione del Premio Goya.
Sinossi
Dopo il colpo di stato militare del 1973, tutti i più stretti collaboratori e ministri di Salvador Allende vengono rinchiusi nel campo di concentramento dell’isola di Dawson, all’imboccatura dello Stretto di Magellano (soprannominata la Guantanamo cilena) dove, per cancellarne le identità, sono ribattezzati con un numero. Grazie alle pressioni della Croce Rossa Internazionale viene loro risparmiata la vita, ma non il clima inospitale, le torture e i lavori forzati. Trent’anni dopo, alcuni sopravvissuti tornano sull’isola e ritrovano il luogo in cui hanno imparato a sopravvivere in condizioni estreme, riproponendo persino in prigionia i ruoli politici che avevano nel governo. A riceverli, i carcerieri di un tempo, oggi funzionari del potere democratico.
Santiago 1973. Dopo il colpo di stato, alcuni leader dell’Unidad Popular vengono trasferiti sull’isola di Dawson, un campo di concentramento situato nello stretto di Magellano. Tra i detenuti erano presenti anche ex-ministri del governo Allende. Il regime golpista legittimò il rovesciamento della volontà del popolo cileno, proclamando la lotta contro l’Internazionale Comunista, di cui Allende era considerato il nuovo esponente sudamericano. La politica progressista e soprattutto la riforma agraria, che prevedeva la redistribuzione delle terre ai contadini, furono le misure che scatenarono la reazione dell’esercito cileno, pilotato dall’establishment americano. Dopo mesi di reclusione e condizioni estreme, i prigionieri politici vennero finalmente liberati grazie all’intervento delle Nazioni Unite, della Croce Rossa e anche del leader democratico americano Ted Kennedy.
Miguel Littin riesce a evitare (ed è un merito non secondario) il rischio della ripetitività, non solo alternando i fatti della detenzione con inserimenti riferiti a ciò che era accaduto e accadeva oltre l’isola – e lo fa con un “pudore” e una “discrezionalità” esemplari, ricorrendo spesso a immagini di archivio (i momenti del golpe, le bombe contro il palazzo presidenziale della Moneda, le ferocissime, successive repressioni indiscriminate della dittatura) – ma cercando anche di penetrare l’intimo delle singole esperienze, mostrandoci le poche lettere scritte alle famiglie, i disegni, le poesie, che aiutarono i prigionieri a tirare avanti senza lasciarsi travolgere dalla disperazione dello sconforto, che sono poi quei momenti di umanità ritrovata che travalicano le maglie del ferreo regolamento militare. Non ci sono scarti fra i vari piani. Le sequenze si integrano senza sbavature, richiamate alla memoria magari dalle immagini trasmesse da un apparecchio televisivo momentaneamente concesso perché venisse riparato, o ancora dalle frequenze intercettate di Radio Mosca che racconta il fuori. Lo stile del film, sospeso tra il documentario e la rappresentazione, è molto sobrio e, per certi versi, ricorda non poco, soprattutto per la fotografia e le atmosfere, alcuni film di Steven Spielberg. Particolarmente commovente la fine del film quando, mentre già stanno scorrendo i titoli di coda, si sente il toccante discorso di Allende che invita il popolo a credere nel suo governo. Applausi