Quanto è mutato il volto di Brindisi (comune tra i più popolosi e capoluogo dell’omonima provincia pugliese) dagli anni ‘60 a oggi, ossia da quando la città ha voluto, subito e fatto i conti con l’insediamento dei grandi mostri industriali? A testimonianza di ciò, tornano agli occhi e alla mente le immagini e le parole dei protagonisti di Brindisi 66 e Tommaso, due doc girati negli anni ‘60 (appunto) dalla grande documentarista Cecilia Mangini in un contesto improntato al nuovo sviluppo, dominato dal moloch dello stabilimento petrolchimico e in cui si coltivava il sogno (condiviso e collettivo) di trovare un impiego e magari riuscire così a comprarsi una moto veloce o una macchina.
A creare una sorta di collegamento tra la realtà di allora e un presente molto meno speranzoso, per non dire decisamente tragico e preoccupante, è il bellissimo Vento di soave (dall’epiteto che Dante diede a Federico secondo di Svevia, imperatore cui è dedicata la centrale termoelettrica a carbone) del giovane regista pugliese Corrado Punzi. La centrale a carbone dell’Enel, situata a Cerano, e l’impianto di petrolchimico Eni hanno fatto si che la città registrasse dati di mortalità e di malattia di molto superiori alla media. Con uno stile rigoroso e asciutto, Punzi segue e documenta la storia di due agricoltori che vivono nei pressi della centrale, di un dipendente che fa pesca subacquea per dimostrare come anche i pesci abbiano subito le conseguenze e i danni dell’inquinamento e segue pure il processo intentato contro la centrale. Il doc, quindi, si muove e si snoda su più piani di lettura, è costruito su diversi punti di vista, si articola nelle varie posizioni che compongono la difficile realtà brindisina. Balza subito agli occhi il taglio che il regista ha inteso dare al suo lavoro: non è il classico doc di inchiesta dal piglio spiccatamente giornalistico (in cui si raccolgono testimonianze e interviste in buona sostanza), al contrario è un’indagine a 360 gradi che mira ad acquisire gli elementi utili da ogni dove, ovvero non intende appiattirsi solo sul punto di vista delle vittime di queste grandi industrie a combustibili fossili, ma osserva anche l’altra parte: il Petrolchimico come si è auto-incensato e auto-narrato.
Il merito di Vento di soave è soprattutto questo: l’essere narrazione realistica della drammatica situazione di una città al collasso come Brindisi, divenuta, suo malgrado, lo specchio di quel modello capitalista aggressivo e arrogante che ha prima sedotto e affascinato con le sue promesse di civiltà, guadagno e benessere, per poi rivelarsi in tutto e per tutto catastrofico (tra impatto ambientale, malattie e una concezione del lavoro ormai obsoleta e irrispettosa dei bisogni e delle esigenze degli operai). È presa di coscienza e denuncia, è racconto e speranza, è rabbia e riscatto: tutto converge, si trasforma in forte emozione, si snoda e si articola in questo spaccato di vita meridionale in cui, ancor oggi, la gente è costretta a scegliere tra salute e lavoro, tra povertà e falso benessere, tra vita e morte, tra morte e morte. Perché “di lavoro” si può morire e si muore ancora, quando non ci sono modelli alternativi di sviluppo, quelli che tengono conto e rispettano le peculiarità del territorio, la sua naturale vocazione. Il dio denaro non guarda in faccia a niente e, complici degli inetti e incapaci governanti, ha fatto terra bruciata ovunque si sia insinuato con le sue ammiccanti evocazioni.
Vento di soave, nel suo piccolo, è una cartina di tornasole dell’intero Mezzogiorno, di un Sud costellato di tante piccole storie simili. Tragicamente bella, vera e necessaria, quest’opera scuote le coscienze di noi tutti (non solo dei meridionali), affinché da un così recente e doloroso passato e da un presente altrettanto triste e incerto si possa ripartire e (si spera) optare per un modello di civiltà totalmente nuovo.
Sara Patera