Il fotografo e documentarista Dario Albertini, per il suo esordio nel cinema narrativo, non abbandona l’aspro realismo che ne aveva ispirato la carriera precedente, tanto che fonte d’ispirazione di Manuel è il documentario La repubblica dei ragazzi, girato nel 2015. E proprio là dove quello s’interrompeva, comincia questo lungometraggio, che ne rappresenta una sorta di continuazione e di approfondimento. Se di un film di finzione si tratta, non è scevro, come si diceva, da elementi che l’avvicinano all’esperienza neorealista: a cominciare dal rifiuto di far recitare gli attori secondo la dizione e lasciandoli liberi di esprimersi naturalmente, con una marcata inflessione romanesca; non solo, ma uno dei personaggi è un attore non professionista che interpreta se stesso. Viene alla mente quanto sosteneva Bazin nel saggio Il cinema italiano della Liberazione sull’importanza di richiedere agli attori «il minimo di menzogna drammatica»: accanto ad attori professionisti recitano, infatti, interpreti presi dalla strada i quali, secondo le parole dello studioso francese «si giovano della presenza dei professionisti», mentre questi ultimi «beneficiano dell’autenticità generale».
Il soggetto medesimo è ispirato a un fatto reale narrato dal responsabile della casa famiglia che ospita i ragazzi privi del sostegno dei genitori. Elementi questi che conferiscono all’opera un’autenticità e una freschezza rare nel panorama nostrano coevo e rendono tanto più intensi e pregnanti i duetti fra Manuel e la madre, la cui momentanea libertà dipende interamente dalla capacità del figlio di destreggiarsi fra avvocati e assistenti sociali. La sceneggiatura inverte, dunque, le parti e trasforma il personaggio del figlio in colui che deve badare alla madre, capovolgendo il rapporto vigente fra le due figure all’interno della famiglia tradizionale. Una volta libero, Manuel deve sopportare in toto il peso derivante dalla precaria situazione materna, contando solo sulle proprie forze: il protagonista si vede costretto a sacrificare la sua giovinezza e l’ansia di vita che l’accompagna (resa ancor più intensa dalla lunga permanenza forzata nella casa famiglia) per dedicarsi completamente alla madre, bisognosa d’attenzione e d’aiuto come, se non di più, dello stesso Manuel. S’instaura così un rapporto esclusivo tra i due personaggi che non tollera intromissioni dall’esterno, finendo col privare il giovane dei normali e necessari rapporti sociali e affettivi che non siano quelli del ristretto nucleo familiare. Proprio a causa di tale inversione di ruoli fra la madre e il figlio, questi rischia di annullarsi e di rinunciare al proprio futuro per il bene dell’altra, in un estremo e a suo modo eroico sforzo per dimostrare di saper occuparsi di lei, come una madre farebbe con un figlio; anche se qui, lo sappiamo, le parti sono invertite. Le colpe materne si riverberano dunque su Manuel e minacciano di condizionarne negativamente l’esistenza. Non pare pertanto eccessivo sottolineare come lo spaccato dell’istituzione familiare che ne sortisce sia a dir poco aberrante e il forte realismo cui l’opera è improntata enfatizzi tale inversione di ruoli rendendola particolarmente incisiva e di forte impatto sullo spettatore.
Manuel è dunque una sorta di Bildungsroman sui generis, dove il protagonista viene messo alla prova in un estremo atto di sacrificio, da lui deliberatamente scelto e di cui è disposto a sopportare la responsabilità e la fatica, che comporta la rinuncia all’appena conseguita libertà e alla scoperta dei sentimenti (siano essi d’amicizia o d’amore). Un esordio che lascia ben sperare, per la franchezza e la sincerità, quasi la ruvidezza, dimostrata nell’affrontare un tema tanto complesso e viscerale come quello del rapporto fra una madre e un figlio.