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A Beautiful Day: l’estetica della tragedia
In una delle sequenze più toccanti di A Beautiful Day – You Were Never Really Here il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix è disteso a terra, accanto all’uomo che gli ha appena ucciso la madre. In fin di vita e con in corpo un ultimo respiro il killer cerca la mano di Joe e dopo averla trovata la stringe. Iniziando a canticchiare insieme a lui le note della canzone trasmessa dalla radio. La scena in questione, è indicativa della duttilità drammaturgica che fa convivere tragedia e poesia. La particolarità della sua costruzione: pur assegnando allo sconosciuto una rilevanza più profonda rispetto ad altri comprimari, la regista Lynne Ramsay preferisce mantenerne l’anonimato, inquadrandolo quel tanto che basta per farne intravedere la sagoma riversa a terra e una parte di volto non significativa.
Se il titolo originale (You Were Never Really Here) è collegato agli incubi che riportano il protagonista a quel passato da cui tenta inutilmente di liberarsi, così la Ramsay tiene conto di quest’assenza. La evoca tanto nelle immagini relative al protagonista quanto in quelle del mondo circostante. Non è un caso che in fase introduttiva vi sia più di un’inquadratura in cui il film si sofferma volutamente sullo spazio lasciato vuoto da Joe un attimo prima dell’arrivo della macchina da presa. Nei titoli di coda vediamo il fermo immagine sull’interno del bar dove Joe ha appena fatto colazione assieme a Nina, la bambina che l’uomo ha salvato dalle grinfie di una potente rete di pedofili.
La Ramsay non manca di riflettere la condizione fantasmatica del protagonista, riflettendola nell’inconsistenza materica dei passanti in cui Joe casualmente si imbatte. Loro sono filmati come fossero l’estensione delle sue proiezioni mentali. Nella scena ambientata nella stazione della metro in cui Joe è oggetto di morbosa attenzione da parte di una ragazza, lui non sembra accorgersene. Non tanto per banale distrazione, piuttosto perchè la donna esiste solo nella sua testa.
Due anime a confronto
Ispirato all’omonimo romanzo di Jonathan Ames, A Beautiful Day – You Were Never Really Here narra l’incontro di due solitudini. Quella di Joe, impegnato a prendersi cura della madre malata e pronto a uccidere a colpi di martello gli aguzzini di giovani adolescenti. Tra questi, Nina, orfana di madre e figlia del senatore che chiede a Joe di ritrovarla e riportarla a casa. La Ramsay ragiona secondo archetipi che ne rendono universale l’assunto. Coadiuvata dalle ellissi del montaggio, riesce a mantenersi in bilico tra cinema d’autore e prodotto di genere (Taxi Driver, Leon e il cinema di Mann rientrano tra i modelli presi in considerazione). Raccontando una liberazione dal male che è allo stesso tempo carnale. Per il tramite della fisicità che Phoenix impone alla sua recitazione, e astratta, ottenuta sottraendo alla violenza il contesto informativo che di solito permette allo spettatore di attenuare l’impatto di una violenza efferata e sanguinaria. Per contro, ad aiutarne la comprensione interviene la scelta di una linearità narrativa che ne suggerisce la derivazione. Slabbrando la continuità temporale della vicenda con una sovrapposizione di parole, di tic e allucinazioni che fanno dello schermo il tracciato della mente del tormentato protagonista.
Il verdetto finale
Detto questo, A Beautiful Day non si dimentica di rapportarsi con la realtà contemporanea. L’improbabile confronto tra la miseria della periferia metropolitana, a cui la mdp si rivolge con occhio documentaristico e l’opulenza vittoriana degli interni delle case patrizie. Queste, utilizzate dai politici come alcova di vizi e corruzione la dice lunga su quale sia il pensiero della Ramsey sull’America della presidenza Trump. Premiato all’ultimo festival di Cannes per l’interpretazione maschile (Phoenix) e la sceneggiatura (Ramsey), A Beautiful Day è un film che non lascia scampo. Da vedere.