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Approfondimenti

Split di M. Night Shyamalan, ovvero il dolore insostenibile di un’anima fatta a pezzi

M. Night Shyamalan si ispira a una storia vera, quella di Billy Mallaghan, un uomo che negli anni ‘70 ha rapito e violentato tre ragazze ed è stato assolto per infermità mentale in seguito al riconoscimento del suo gravissimo Disturbo Dissociativo dell’Identità

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Un’anima fatta a pezzi.
Tanti più pezzi quanto più atrocemente è stata torturata o abusata, quanto più piccola e indifesa era la persona cui appartiene quando gli è stato fatto del male, quanto più grande è l’essenza di cui è fatta.
Quell’anima rimane in pezzi, non ce la fa a mantenersi integra, è talmente ferita che non è in grado di sviluppare gli strumenti necessari per creare un unico senso di sé, un’unica identità.
E l’unico modo che trova per sopravvivere, è restare frammentata, è creare tanti sé, ognuno dei quali ha la sua funzione, fa la sua parte di lavoro per rendere sopportabile un dolore così grande e ognuno dei quali la tiene lontana da ciò che non tollera, la dissocia da vissuti troppo penosi che non potrebbe sostenere da sola.

Questo è ciò che racconta in modo impeccabile il bellissimo film di M. Night Shyamalan, che nonostante sia il secondo di una trilogia, rappresenta anche da solo un’unica opera esauriente e completa. Il regista riesce magistralmente a inserire in un film di genere che mantiene ogni caratteristica necessaria per essere fruibile ed efficace, una delle realtà più dolorose, inquietanti e difficili da gestire nel panorama dell’instabilità emotiva e mentale.
Non a caso si ispira a una storia vera, quella di Billy Mallaghan, un uomo che negli anni 70 ha rapito e violentato tre ragazze ed è stato assolto per infermità mentale in seguito al riconoscimento del suo gravissimo Disturbo Dissociativo dell’Identità, a causa del quale la sua persona ha potuto contenere ben 24 identità diverse e distinte che sono state riconosciute sia dal punto di vista clinico che legale.

E’ evidente come Shyamalan debba aver fatto un lavoro di ricerca e documentazione estremamente accurato sul tema che ha scelto. Infatti, nonostante egli dia al suo lavoro ad un certo punto, sul finale, una deriva narrativa non considerabile esattamente verosimile che può stridere e risultare superficiale e esageratamente fumettistica, in realtà, non solo quella deriva non ha niente di banale ed è perfettamente coerente con tutto il resto, ma i dialoghi, le riflessioni, i concetti che costellano interamente la messa in scena, la precisione con la quale ne descrive le caratteristiche anche al di là degli aspetti comportamentali esprimendole con la massima veridicità anche dal punto di vista emotivo e affettivo, denotano l’assoluta comprensione del significato più profondo di questa crudele, oscura e complessa malattia, quale umanissima forma di sofferenza.

L’abilità nell’incarnarle in modo esemplare, da parte di un bravissimo John McAvoy, esprime chiaramente come le identità riconoscibili nel protagonista Kevin, siano tutte indispensabili ma altrettanto distinte tra loro, a testimoniarne la frammentazione e l’impossibile integrazione in un unico individuo ma anche l’imprescindibile necessità di ognuna per la costituzione dello stesso.
Ogni identità è parte integrante e fondamentale di quell’individuo, non può esistere senza le altre, ed è proprio quando una di esse prende il controllo sulle altre, quanto più se ne distacca, quanto più quella presa di controllo impedisce alle altre di avere il proprio spazio e quanto più le diverse identità non comunicano tra loro, che la stabilità è a rischio e si fa più debole e precaria.
Nello stesso tempo, quella frammentazione ha tristemente la sua funzione, la sua ragion d’essere. Ognuna delle identità, il bambino, la donna, l’ossessivo, lo stilista, ha il suo ruolo e quando prende il controllo sugli altri, accade perché quegli altri in quel momento sarebbero meno funzionali, non reggerebbero la situazione, non sarebbero in grado di proteggersi o di portare avanti un progetto.
Ciò che rende più triste questa condizione, oltre all’ovvia instabilità che, come si vede bene nel film, può sfociare in conseguenze gravi se non tragiche, è il fatto che una persona così frammentata non può e non riesce a condurre una vita normale.
Nessun uomo può vivere soltanto con alcuni pezzi di sé, e, per quanto con il fine di proteggerli o di evitare scontri, tenere a bada gli altri.
Perché gli altri sono lì e prima o poi avranno bisogno di venir fuori e di esprimersi, di essere visti, di relazionarsi, di vivere. Sono lì e busseranno per uscire.
E allora quell’ uomo si isola, si autocostringe alla solitudine o a una vita relazionale estremamente limitata, spesso molto al di sotto del suo potenziale e del suo valore, scegliendo uno stile di vita in cui avrà meno stimoli possibile che potranno evocare la normale e umana tendenza all’ espressione di tutte le parti, dato che non tutte sono in grado di venir fuori senza scompensarsi.

Un bimbo che ha subito certi traumi riesce a sopravvivere solo grazie a quella frammentazione, grazie al fatto che riesce a dissociare dalla coscienza di sé, l’emotività relativa a quei momenti e alla conseguente, probabilmente indescrivibile e certamente intollerabile sofferenza che li ha caratterizzati. Sviluppa un senso di sé composto da ognuna delle parti di quel sé che ha vissuto quei traumi separatamente, perché si sarebbe sbriciolato se li avesse vissuti nella totale consapevolezza. Quindi, nell’adolescente, nel ragazzo e nell’uomo che diventerà, ci sarà la vittima indifesa, quella più pura, dalle emozioni più innocenti ma anche le più intense, che comprendono il dolore ma anche tutto l’entusiasmo, la gioia, la purezza che è stata strappata via. E ci sarà chi non sopporterà la vulnerabilità di quella piccola vittima, che odierà il suo bisogno di affetto perché sa quanto è stato pericoloso e pur di proteggerla, metterà in piedi il massimo cinismo e distacco, volti a tenere a bada qualsiasi stato d’animo troppo intenso, qualsiasi senso di bisogno, perché fidarsi di quei bisogni, di quegli slanci, è equivalso a subire, al terrore, alla violenza, all’ umiliazione, quindi non si può, non si può dare troppo spazio alle parti più emotive e pure, che poi sono le più creative, quelle più piene di idee, di slancio, di speranza, quelle più brillanti e vive, quelle che se potessero respirare e vivere in tutta la loro essenza, sarebbero capaci di fare grandi cose, e sarebbero in grado di far fluire i sentimenti, dando modo finalmente a quel bambino di poter ricevere e dare l’affetto che gli è mancato, che si merita e che gli sarebbe vitale per curarsi.
Ma il resto di sé ne ha troppa, troppa paura e si attiva per proteggerlo, per difenderlo, per impedire che ricapiti ancora.

E viene istintivo occuparsi delle parti più bisognose di una persona così, di quelle più vulnerabili, quelle che hanno avuto meno spazio, perché se ne percepisce la necessità di respirare e soprattutto perché chi ha la fortuna e il privilegio di venirne a contatto, si rende conto di quanto siano qualcosa di incredibile, di meraviglioso. E’ qualcosa che non si potrà mai riscontrare in un qualsiasi altro individuo che non ha vissuto le stesse cose, che non ha creato una struttura simile.
Perché ognuno di noi sviluppa le sue difese man mano che cresce e quelle difese sono incorporate, convivono con le nostre parti più vulnerabili ed emotive, fanno parte della stessa struttura che costituisce un unico sé. In queste persone quella vulnerabilità-emotività-creatività è dissociata dal resto, è protetta da delle parti più difese che però ne restano separate, è come una sorta di pietra preziosa che resta in fondo. Un fondo al quale se si riesce ad accedere non si può che essere abbagliati dalla luce che emana, dalla bellezza e dal valore che si percepisce immediatamente inestimabile. E’ come poter vedere e toccare con mano la purezza e l’innocenza di un bambino, la sua vitalità, il suo essere meravigliosamente in grado di darsi e di dare senza paura, in un adulto. E’ qualcosa di straordinario e tristissimo nello stesso tempo, perché appartiene a una dimensione che esiste così, isolata dal resto, solo grazie al fatto che gli è stato fatto tanto male e che di conseguenza esiste il disturbo e non potrebbe mai esserci se quella persona non ne fosse affetta.
Ma è anche, seppur tristemente, una sorta di compensazione, di restituzione in valore, che purtroppo non toglie nulla al dolore che quel bambino ha vissuto, a quello che deve gestire l’adulto che è diventato, ma se in tanto male si può trovare qualcosa di bello, allora si può essere certi abbia quantomeno regalato a quella persona e al mondo, una mente e un’anima preziosissime che dovrebbero solo avere la possibilità di venire fuori, esprimersi e illuminare sia il suo buio che chiunque abbia la fortuna di incontrarla.
Così appunto, viene istintivo dare più accoglienza alle parti più emotive che non a quelle distaccate e ciniche. Mentre è fondamentale capire che non esistono parti giuste o parti sbagliate, che ognuna delle parti ha la sua funzione e non può essere ignorata. Che anche le parti più distaccate sono fondamentali e non agiscono mai solo per male, ma hanno sempre il loro ruolo nell’economia dell’interezza dell’individuo, che azioni o parole apparentemente respingenti sono volte a proteggere qualcosa che viene percepito indifeso e che la rabbia e l’ostilità sono necessarie a mantenere delle distanze senza le quali quella persona non potrebbe vivere.
Ed è ciò che succede alla dottoressa Fletcher, la psicoterapeuta che si occupa del caso di Kevin, che fa il madornale errore di non dare lo stesso valore a tutte le parti, ma soprattutto di negare l’esistenza di una di esse. Quella più arrabbiata e negativa, quella più apparentemente disumana e cattiva. “La bestia”.
L’aspetto più triste e bello nello stesso tempo è che la dottoressa compie questo errore a causa di un’unica cosa. Gli vuole bene. Si affeziona a Kevin, e il suo affetto la rende a sua volta più vulnerabile, incapace di concepire che la persona cui vuol bene sia capace di cattiveria o di azioni efferate, si fida di lui, si fida del suo affetto, della bontà e dell’anima che ha percepito. Non può pensare che una persona di cui ha imparato a conoscere desideri, istanze, pene e paure, possa davvero fare del male a qualcuno o addirittura a lei.
E il tragico è che sono tutte cose vere, la dottoressa non ha riposto male la sua fiducia, non ha sbagliato.
Kevin è davvero tutte le cose che lei conosce così bene, che ha accolto e imparato ad amare.
Semplicemente, il ragazzo che ha in cura è anche qualcuno che non può provare affetto senza distacco, senza paura, senza la necessità di proteggersi, senza la rabbia di non voler sentire il bisogno di qualcuno, senza la furia di voler vendicare il fatto che quel bisogno sia stato premiato con l’orrore.
Così, per voler bene o per curare una persona con un vissuto del genere, o per fare entrambe le cose, occorre tener conto di un TUTTO, di tutta la sua persona, di tutte le sue istanze, occorre accoglierle tutte, anche quelle più difficili da capire, da gestire, quelle più disturbanti e a volte incompatibili con la realtà.
Ed è l’unico modo perché poi quella persona possa trovare il coraggio di esporlo quel tutto, di fidarsi abbastanza da pensare che possa essere accolto, amato e non rifiutato o peggio ancora, ferito ulteriormente. Perché possa imparare lui finalmente, una volta che lo sente uniformemente accolto, a capire, prima, che le parti che lo compongono sono tutte importanti, che le deve far comunicare, e poi che può farle vivere tutte insieme in un unico sé, dando a tutte lo stesso valore. Un’impresa.
Lei non lo ha capito. Ed è bellissimo come Shyamalan riesce a esprimere in un’unica scena come l’affetto reciproco non sia sufficiente, non senza che si riesca ad accogliere quel tutto. Non senza che lui trovi il coraggio di lasciarsi andare e condividerlo.
Lei gli vuole bene, lui le vuole bene. Non basta. La uccide. E la uccide con un abbraccio.
Grande scena.
La dottoressa nega l’esistenza della ventiquattresima identità, della “bestia”, perché Kevin la descrive con caratteristiche abnormi, effettivamente non attribuibili a un essere umano. Ha delle dimensioni spropositate, cammina sui muri, possiede una forza sovrumana. E questo è l’aspetto più tenero e penoso di questo racconto, ma anche uno dei più belli. Quelle caratteristiche abnormi non sono altro che i poteri attribuitigli da un bambino incapace di difendersi, che ha creato un supereroe in grado di far male quanto ne è stato fatto a lui con un solo piccolo gesto, che possa finalmente vendicarlo.
Quello che poi diventa capace di uccidere non è altro che un bambino geloso, geloso della felicità, della spensieratezza e della facilità con cui vive chi non ha sofferto come lui, che si sente in diritto di annientare quella serenità insopportabile e risparmia solo chi percepisce ferito a addolorato quanto lui. Un bambino che vive di istinti e di sensazioni immediate, senza razionalità, senza astrazione, le stesse sensazioni gli stessi istinti che possono essere meravigliosi e creare grandi cose, ma che possono anche diventare distruttivi all’ennesima potenza quando mossi da paura o da rabbia.
Ed è qui che la deriva apparentemente banale ed eccessivamente immaginifica di Shymalan diventa invece cardine e simbolo di tutto il racconto. La “bestia” diventa vera, i poteri prendono vita e quel bambino può finalmente dare spazio a una vendetta liberatoria quanto atroce, che lo rende contemporaneamente vittima e mostro e diventa l’unica via per liberare tutta quella rabbia.

E infine sembra essere una storia triste quella di Kevin, una storia che deve esitare necessariamente in violenza e dove non c’è spazio per l’amore.
In realtà non è così. Si dice che l’amore cura e non è del tutto una favola. Kevin non aveva qualcuno vicino, c’era la dottoressa sì, ma non c’era qualcuno accanto a lui che lo amasse tanto da farlo sentire sicuro, sicuro di poter essere sé stesso, tutto sé stesso, senza essere rifiutato o abbandonato, di poter piano piano far comunicare tra loro tutte le sue parti fino a integrarle in un unico sé. Se ci fosse stato quel qualcuno insieme alla dottoressa, forse sia lei che le ragazze si sarebbero salvate, e forse Kevin si sarebbe salvato da sé stesso.
E’ difficilissimo amare qualcuno che per poter amare avrà la necessità di difendersi, di proteggersi, di negare con tutto sé stesso che ha bisogno di quell’amore, e per far questo sarà anche ostile, cattivo e distanziante.
Ma la sfida è fidarsi di quella luce, di quel bambino che ogni tanto cerca di venir fuori, di quella pietra preziosa che sta in fondo ma c’è, sempre, e che esiste solo in una persona così. La sfida e fidarsene e amarlo tanto da convincere le parti di lui che lo proteggono a fidarsi altrettanto e a renderlo accessibile e amabile come merita, tanto da far loro capire che chi lo ama davvero non è una minaccia e vuole solo aiutarle nel loro lavoro di proteggerlo e difenderlo dai pericoli, amarlo tanto da rassicurare quelle così arrabbiate, che quella rabbia è legittima e può essere accolta e placata senza che debba esitare in violenza rendendolo quel mostro che crede di essere, quello che sarà sempre ferito, rifiutato, abbandonato, che non è affatto un mostro, ma soltanto un bimbo sofferente che deve solo concedersi di amare ed essere amato.
Ma questa è un’altra storia, forse solo una favola.
Split è andato diversamente.

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