“Se Matteo Garrone ha dimostrato una crescita artistica costante e impressionante, culminata con due opere cristalline come Reality e Il racconto dei racconti che avrebbero meritato ben altri incassi, diverso è il discorso per Paolo Sorrentino, che con La Grande Bellezza ha vinto un premio Oscar spaccando letteralmente in due la critica e il pubblico di casa nostra, diviso in estimatori entusiastici e detrattori incalliti. La bagarre mediatica, capace di imperversare per settimane sui social network con toni aspri e accesissimi, si è ripetuta con Youth – La giovinezza, che non ha ottenuto lo stesso successo ma ha comunque avuto una distribuzione internazionale, forte di un cast stellare capitanato da Michael Caine e Harvey Keitel. Comunque la si pensi in merito al cinema di Sorrentino, che con The Young Pope, il suo primo lavoro seriale per il piccolo schermo con protagonista Jude Law, ha ottenuto un incredibile successo di pubblico e critica a livello internazionale, è innegabile che la nostra industria ha un disperato bisogno di personalità del suo stampo, in grado di far parlare di sé anche al di fuori degli angusti confini nazionali.”
Scrivevo così, poco più di un anno fa, nel mio articolo introduttivo sul cinema italiano contemporaneo pubblicato nello speciale cartaceo di Taxi Drivers dedicato ai volti più importanti della nostra industria cinematografica. La stessa, identica e prevedibile situazione si sta ripetendo in questi giorni in occasione dell’uscita al cinema di Loro, primo capitolo incentrato su Silvio Berlusconi di cui il 10 maggio verrà distribuita la seconda e ultima parte. Fin dall’anteprima stampa stiamo assistendo alla solita bagarre social-mediatica che promette di imperversare (e ammorbarci) per le settimane a venire. L’astio e il livore di molti, compresa una parte degli addetti ai lavori, suscitati dai suoi lavori mi hanno sempre impressionato e a volte mi hanno anche fatto sorridere. Capisco perfettamente che possa non piacere – e da estimatore della prima ora del suo cinema (L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore) non nego di esserne rimasto deluso in almeno un paio di occasioni (This must be the place e Youth) – ma fatico a comprendere chi si accanisce con tanta foga e odio contro i suoi film, quasi come se fosse una questione personale che nulla ha a che vedere con la Settima Arte.
L’origine di questo pandemonio social-mediatico risale almeno a cinque anni fa, con l’uscita al cinema de La grande bellezza, capace di scatenare dibattiti accesi e liti infinite, riprese poi a distanza di diversi mesi, in occasione dell’Oscar vinto nel 2014 per il miglior film straniero. Verrebbe da pensare, maliziosamente, che almeno una parte dei suoi più incalliti e inviperiti detrattori non perdona al regista partenopeo il successo di pubblico e i vari riconoscimenti internazionali ottenuti dai suoi film. Questo pezzo non vuole ergersi a difesa del suo modo di fare cinema (non avrebbe molto senso e tra l’altro Sorrentino non ne ha affatto bisogno) ma piuttosto cercare di capire come mai qui da noi sia diventato uno dei registi che più divide critica e pubblico, un po’ come accade a livello internazionale a Lars von Trier, Michael Haneke o Darren Aronofsky. Negli ultimi anni a Sorrentino si è aggiunto, magari in scala minore, il nome di Luca Guadagnino, spernacchiato e sbertucciato da buona parte della critica nostrana in occasione della proiezione stampa di A bigger splash al festival di Venezia nel 2015. Il cineasta palermitano era già stato attaccato duramente per i suoi lavori precedenti, in particolare per Io sono l’amore, film che nel 2009 aveva ottenuto diversi riconoscimenti internazionali culminati con la nomination all’Oscar per i migliori costumi e la candidatura a miglior film straniero ai Golden Globes. Il suo ultimo lungometraggio, Call me by your name, pur essendo stato ben accolto da buona parte della nostra critica ha riacceso polemiche e discussioni sul suo cinema mentre all’estero è stato lodato, incensato e premiato ovunque fino ad arrivare a vincere un premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale firmata da James Ivory. Il suo prossimo progetto, ormai in dirittura d’arrivo, promette di far discutere come non mai, dal momento che si presenta come una sorta di libero remake di Suspiria, il capolavoro furioso e furente di Dario Argento. Stiamo parlando dei due cineasti italiani attualmente più conosciuti e apprezzati all’estero, almeno per quanto riguarda i registi della loro generazione nati agli inizi degli anni ’70. Guarda caso i più odiati, discussi, attaccati e incompresi qui da noi, come se fosse un’inevitabile tassa da pagare, una pena da scontare a causa del successo internazionale che proprio non viene loro perdonato.
Entrando nel merito di Loro, progetto rischioso e irto d’insidie, visto il personaggio a cui s’ispira di cui si è già detto tutto e il contrario di tutto oltre ai film e ai documentari che lo hanno visto protagonista in questi anni, posso dire che mi ha spiazzato e fornito diversi spunti di riflessione ma il giudizio, per forza di cose, è da sospendere in attesa dell’uscita della seconda parte. Solo dopo aver visto il secondo e ultimo capitolo si potranno tirare le somme di questa sua ultima e controversa fatica. Questo primo atto mi è sembrato piuttosto disarmonico, con una prima parte fin troppo lunga, ingombrante e debordante rispetto alla seconda, più centrata, ispirata e “asciutta” (aggettivo, quest’ultimo, che solitamente poco si addice al cinema del regista napoletano). Un primo capitolo che forse non aggiunge più di tanto alla poetica sorrentiniana ma che contiene al suo interno dei momenti di puro e grande cinema, oltre a numerosi siparietti grotteschi, ironici e corrosivi tipici del suo stile divenuto ormai inconfondibile e riconoscibilissimo dai più.
Nel secondo capitolo, di cui ignoriamo ancora il minutaggio, i due “mondi” tenuti separati e distinti in questo primo atto sono destinati a convergere ed entrare in collisione, con la dimensione pubblica e privata che probabilmente si andranno sovrapponendo e intersecando. Resta dunque l’attesa e la curiosità di vedere come si concluderà questo dittico berlusconiano illuminato in questa prima parte da una dolente, tenera e rassegnata Elena Sofia Ricci nei malinconici panni di Veronica Lario. L’invito e il consiglio rivolto agli haters e ai critici più feroci è di abbassare pistole e fucili, almeno fino all’uscita dell’atto finale. Appello che, ne sono certo, rimarrà inascoltato perché per molti rinunciare alla caciara mediatica è semplicemente inconcepibile. L’ennesima occasione sprecata dal pubblico e dagli addetti ai lavori che avrebbero potuto dar vita a un dibattito in cui confrontarsi in modo costruttivo e propositivo anziché assistere ai soliti due schieramenti agguerriti e contrapposti che vanno avanti a slogan calcistici e reciproche offese.