Un ritmo teso fondato su movimenti di macchina sinuosi e su un montaggio quasi accelerato, unito a dialoghi brillanti e a una costante voce fuori campo che collega i frequenti andirivieni temporali: invece di accattivarsi l’attenzione e l’interesse dello spettatore, Aaron Sorkin, con Molly’s game, finisce col frastornarlo e distanziarlo dagli eventi narrati, tanto da fargli perdere il filo della trama e i numerosi rimandi fra il passato e il presente della protagonista.
Già sceneggiatore di successi hollywoodiani quali Malice- Il sospetto (1994) e i più recenti La guerra di Charlie Wilson (2007) e The social network (2010), Aaron Sorkin esordisce alla regia adattando l’autobiografia della vera Molly Bloom (sebbene i titoli di coda avvertano di come il contenuto sia stato romanzato), e la trasforma in un’opera che spazia fra generi diversi, dal poliziesco al giallo processuale, al drammatico, alla commedia sofisticata. Se la perizia e l’acribia del regista e sceneggiatore (che per il suo copione ha ricevuto una candidatura all’Oscar), come degli attori e dei tecnici, non sono qui in discussione e sono anzi valorizzati da una produzione piuttosto ricca, che non ha evidentemente lesinato a girare in tre località diverse come New York, Los Angeles e la provincia canadese dell’Ontario, a non convincere è il significato complessivo dell’opera e il ritratto che si vuol proporre della protagonista, che domina con la sua presenza quasi ogni inquadratura, relegando gli altri attori al ruolo di comprimari.
Prima bambina e adolescente succube di un padre troppo esigente che l’opprime con la sua personalità; quindi giovane disposta a trasferirsi in un’altra città e ad accettare mansioni umili pur di emanciparsi dall’asfissiante presenza paterna; poi gestrice di una delle più esclusive bische clandestine americane, frequentata da magnati e vari personaggi della finanza e dello spettacolo; infine, ormai ridotta in miseria, donna forte disposta ad ammettere le proprie colpe ma, per non contravvenire al suo senso morale, non a tradire i frequentatori abituali delle serate di poker da lei organizzate, tanto da rischiare la prigione pur di mantenersi fedele ai suoi principi.
Ascesa, caduta e rinascita, s’è detto: perché nella buona come nella cattiva sorte, nel successo come nella miseria, Molly non perde mai la fiducia nelle proprie capacità, nella sua intelligenza che le consente in ogni occasione di cavarsi d’impaccio persino dalle situazioni più gravi. Il film è. in fondo, in ciò pienamente in linea con la mentalità americana e più in generale anglosassone, una celebrazione delle virtù e della forza del singolo, che dal nulla raggiunge il successo fidando solo sulle proprie doti e qualità, dalle quali ripartire quando tutto quel che si è franato come un castello di carte. La parabola della protagonista è dunque quella del self made man (o meglio, in questo caso, della self made woman), che contando solo su se stessa e imponendo in ogni occasione la propria volontà (nel rapporto col padre, col datore di lavoro, che l’introduce nell’ambiente del gioco, e persino col suo avvocato) consegue sempre gli obiettivi propostisi e riesce a capovolgere le apparenti sconfitte in vittorie.
Il titolo si presta dunque a una doppia lettura: il “gioco” non va inteso, soltanto, letteralmente, come gioco d’azzardo, ma anche come l’abilità e la destrezza della protagonista (Jessica Chastain) di saper uscire vincitrici anche dalle situazioni più gravi. Volto com’è a conferire al film quel ritmo svelto e incalzante di cui si diceva, quasi non volesse concedere un istante di respiro allo spettatore, la sceneggiatura non si perita nemmeno di offrire un minimo d’approfondimento psicologico dei personaggi, fosse anche quello della protagonista: il conflitto che sin dall’infanzia l’oppone alla figura paterna viene infatti sbrigativamente risolto in una scena d’appena cinque minuti, troppo superficiale e semplicistica per riuscire credibile.
Tutte le scelte registiche, come quelle di sceneggiatura e di montaggio, improntate al conferimento di una tensione narrativa che conquisti lo spettatore per tutta la non indifferente durata del film, sortiscono tuttavia l’esito opposto: frastornato da un susseguirsi d’eventi e d’ambienti diversi e da continui salti temporali fra l’infanzia e l’adolescenza della protagonista e il suo presente di donna adulta (senza contare il suo periodo d’apprendistato presso i locali dove si pratica il gioco d’azzardo), lo spettatore perde facilmente il filo della trama e finisce col confondersi e astrarsi da un’opera che vorrebbe al contrario coinvolgerlo ed appassionarlo. Non giova in tal senso nemmeno l’invasiva e onnipresente voce fuori campo della protagonista, che si limita a ripetere verbalmente quanto viene mostrato in immagini sullo schermo, depotenziando la forza delle immagini stesse. Se dunque Molly’s game è senza dubbio realizzato con la professionalità e la larghezza di mezzi che costituiscono la cifra del cinema d’oltreoceano, ciò non vale a creare un’opera non soltanto capace di tratteggiare un personaggio credibile e sfaccettato, ma nemmeno in grado di offrire quell’intrattenimento che dovrebbe invece costituire il carattere precipuo delle produzioni hollywoodiane.