La storia parte letteralmente in quarta, raccontando di un gruppo di rapinatori intenti a entrare in uno dei luoghi simbolo del potere economico-finanziario iberico, la zecca di Stato. La cas di carta racconta un’impresa folle, suicida e dagli esiti mortali, visto che difficilmente il Governo si farà abbindolare da un gruppo sprovveduto di ladruncoli, ma ancora non si conosce la mente dietro a questo incredibile colpo.
Il suo nome è il Professore, un uomo pragmatico, cinico, e che ha costruito il piano nel minimo dettaglio. Da solo il suo progetto è solo carta straccia, e per compierlo appieno ha bisogno una squadra di specialisti e di gran livello. L’uomo va alla ricerca di ogni singolo membro, ognuno dei quali possiede una qualità distinta. Nulla è determinato dal caso, non per il Professore, che li addestra a ogni singola evenienza prima della fatidica data dell’inizio della rapina più grossa della storia. Persino le identità sono tenute in segreto, portando ogni personaggio a decidere un nome di città che si porterà dalle giornate di addestramento a quelle del colpo alla zecca di stato.
La particolarità de La casa di carta sta nell’idea di partenza. L’obiettivo del gruppo non è quello di rubare del denaro colpendo la proprietà di un determinato creditore, ma di stamparli direttamente. Non è un vero e proprio furto, ma una immissione di liquidità come lo stesso Professore afferma in una sequenza della storia. La serie va letta infatti in un contesto economico-sociale che la Spagna sta ancora attraversando, una condizione non tanto lontana a quella italiana.
Tuttavia un forte scossone è in realtà avvenuto, con il movimento Indignados, che in maniera pacifica protestarono contro il Governo Zapatero dopo alcune misure di austerità, e soprattutto per la situazione critica che il Paese attraversava. Paragonarli a questo gruppo sembra indecoroso, dal momento che nessuno di loro ha impugnato delle armi durante la loro opposizione. Tokyo, Berlino, Mosca, Nairobi, Rio, Denver, Oslo ed Helsinki si sentono comunque al pari di coloro che hanno voluto far sentire la propria voce. Certo, di mezzo non c’era il denaro, ma la questione è comunque ideologica contro un sistema che non ha per nulla aiutato i più deboli ma ha rafforzato chi già era in una posizione dominante.
Il loro unico mezzo per combattere e a garantirgli un grosso vantaggio non è il fucile come molti ritengono (d’altronde contro un esercito un battaglione è davvero poca cosa), ma è il tempo, come le loro maschere di Dalì confermano per mezzo dell’immagine. Il loro unico rimedio per vincere contro il plotone spagnolo è rimanere il più possibile in quella gabbia, attendendo le mosse esterne come in una partita a scacchi.
In effetti la prima parte (come suddivisa su Netflix) funziona proprio per questo continuo botta e risposta da entrambi i fronti, bilanciato da una regia che trattiene in pubblico in quella morsa costringendolo a rimanere lì in attesa dell’evoluzione degli eventi. Dove sta il tranello allora? Quando comprende di essere caduto in un inganno? Nella seconda parte, che da l’impressione di non essere figlia della prima. Questa porzione sembra buttare ogni buona intenzione vista nelle prime, intense puntate.
Nonostante tecnicamente La casa di carta sia un prodotto di qualità, con una regia che funziona nel tenere incollato lo spettatore, la narrazione perde drasticamente ogni punto a suo favore, inserendo artifizi e colpi di scena che raggiungono livelli sconcertanti per quanto sono di fatto scollegati con il proseguo della storia. C’è stato poco coraggio nel dare uno strappo al racconto, puntando invece a destare scalpore, a usare caratteri ad effetto tipiche delle vecchie soap che culminano con una sequenza finale che non dà giustizia a quanto di buono era stato proposto nella prima fase, dagli omaggi ai grandi film come Inside Man, Un pomeriggio di un giorno da cani a Point Break. I partigiani spagnoli hanno compiuto una mezza rivoluzione, e non basta purtroppo Bella Ciao a liberarli.