In concorso per la Camèra d’or quale miglior opera prima e nella sezione Un certain régard all’ultimo Festival di Cannes, il primo lungometraggio di Annarita Zambrano, Dopo la guerra, propone una riflessione laica e disincantata sugli anni di piombo e sul lascito di quella stagione su chi l’ha vissuta e sulle generazioni successive, come sui rapporti fra due paesi che, in modo diverso, ne furono coinvolti: l’Italia, segnata in quel periodo dal terrorismo politico, e la Francia, che accolse molti dei responsabili di episodi di violenza compiuti sul suolo italiano.
Vent’anni dopo aver trovato asilo politico in Francia, l’ex militante di sinistra Marco, condannato in patria per omicidio, rischia di vedersi estradato in Italia in seguito al delitto di un professore universitario di cui viene ritenuto il mandante. Per scongiurare tale possibilità, è costretto a fuggire nuovamente; questa volta, però, in compagnia della figlia adolescente Viola.
Oltre a saper affrontare un periodo travagliato della nostra storia recente con uno sguardo imparziale e distaccato, il film possiede inoltre il merito di fondare la vicenda privata dei personaggi con quella collettiva che investe le ragioni della militanza e la scelta della violenza che in quegli anni segnò profondamente il nostro paese. Immune a fenomeni terroristici di tale vasta portata fu invece la Francia, e forse anche questa circostanza può aver contribuito a definire la cosiddetta Dottrina Mitterand, dal nome del presidente socialista dell’epoca, secondo si doveva offrire asilo a chi fosse costretto a espatriare per motivi politici, anche in presenza di una condanna nel paese d’origine.
Dopo la guerra si apre nel 2002, quando l’ateneo bolognese viene scosso dalle proteste studentesche in seguito a una proposta governativa fortemente osteggiata dai lavoratori e, ad aumentare la tensione, si aggiunge l’omicidio di un docente sostenitore di quella riforma. Le autorità italiane chiedono a quelle francesi l’estradizione di Marco, avviando così, dopo il prologo che rimanda a fatti di cronaca recenti, il racconto vero e proprio, ovvero la storia del protagonista il quale, dopo essersi costruito una nuova vita oltralpe, dove viene considerato un intellettuale, vede ora minacciata non solo la stabilità conseguita grazie alla legge francese, ma in primis la sua libertà. I rimandi alla cronaca di cui si diceva, tuttavia, non limitano la portata del discorso condotto dal film, valgono piuttosto da coordinate di riferimento, da punto d’avvio verso una disamina attenta e approfondita di un fenomeno che il nostro paese non sembra aver ancora a sufficienza compreso e analizzato e che si dimostra, a distanza di almeno tre decenni, incapace di superare.
Merito di Dopo la guerra è inoltre quello di fondere in una sola narrazione organica la storia pubblica e quella privata: il protagonista è sì un condannato per un grave reato come l’omicidio ma anche padre di una ragazza che non ha conosciuto quella stagione ed è nata in un altro paese. L’adolescente Viola vede così improvvisamente minacciata l’esistenza fin ad allora condotta, e stenta quasi a riconoscere la figura paterna. Accanto al rapporto contrastato e complesso fra questi due personaggi, scorre in parallelo e a distanza quello fra Marco e i familiari rimasti in Italia, lontani ormai non solo spazialmente dal figlio e dal fratello.
Pur in questo complesso intreccio di sentimenti contrastanti, Dopo la guerra non scade mai nel patetismo e nel melodramma, grazie a una regia tesa e compatta, che alterna opportunamente le scene d’azione a quelle d’approfondimento psicologico. Giovano alla riuscita dell’insieme, oltre all’oculata alternanza delle ambientazioni, che valorizza la complessità della trama, scelte fra Bologna e la Francia, a testimonianza della dimensione e del respiro europeo che si è voluto fornire all’opera e di cui la medesima si sostanzia (lontanissimo dal provincialismo che affligge molto cinema italiano coevo), anche le oculate scelte attoriali, che sollevano gli attori da stereotipi soffocanti: ciò vale in primis per Giuseppe Battiston, spesso confinato in ruoli di caratterista e libero, invece, qui di mostrare le sue doti d’attore drammatico; per la giovanissima Charlotte Cétaire, abile nell’interpretare un personaggio tormentato e complesso, affezionato al padre e insieme desideroso di una libertà indispensabile alla definizione di una propria individualità autonoma da quella paterna e colta ora da dubbi sull’autentica natura del padre; infine, per Barbora Bobulova, fra le migliori attrici italiane degli ultimi anni (le cui qualità drammatiche non sempre sono state valorizzate appieno dal nostro cinema), a sua volta alle prese con un personaggio combattuto tra l’affetto per un fratello che non vede ormai da due decenni e l’amore per il marito e la sua nuova famiglia.
Dopo la guerra affronta, dunque, temi particolarmente complessi e perfino scomodi per la coscienza storica del nostro paese con una profondità e un distacco che evitano l’enfasi come il facile giudizio, rifiutando così una rappresentazione manichea dei personaggi e delle loro azioni. Una regia solida e consapevole e una storia capace di approfondire e sfaccettare i personaggi costruiscono un’opera che non è fuori luogo definire non solo riuscita ma perfino necessaria, uno dei rari esempi di cinema nostrano non tanto engagé o partigiano, quanto capace di raccontare senza preconcetti un periodo violento e oscuro della nostra storia e di far agire sullo schermo personaggi tormentati e complessi, prigionieri di un passato da cui non sanno liberarsi e sui quali incombe come una condanna. Un passato che, come si diceva, si ripercuote negativamente non solo sul protagonista e i suoi familiari, ma persino sulla giovane e innocente Viola, costretta a pagare per colpe non sue, appartenenti a un tempo e a un luogo a lei ignoti, e che pure ne offuscano, con la prospettiva di una nuova fuga dalla Francia e il dubbio instillatole sulla vera natura della figura paterna, una stagione delicata e fragile come l’adolescenza.