Ogni film che faccio va contro ciò che ho fatto prima. I miei giorni più belli per esempio parlava della giovinezza, del primo amore e gli interpreti erano totalmente sconosciuti perchè alcuni non avevamo mai recitato prima d’allora. Il successivo, ovverosia I fantasmi d’Ismael, parla forse dell’ultimo amore e vede la presenza di attori che sono quasi tutte delle star. Insomma, è esattamente l’opposto dell’altro, o, per meglio dire, una reazione al lavoro precedente.
Lavorare con gli stessi attori è qualcosa che ho fatto da subito. Dopo l’esordio con La vie des morts (1991) è stato naturale utilizzare gli stessi interpreti ne La sentinelle (1992). Le persone dicevano che tale scelta avrebbe fatto sembrare il film meno innovativo, ma il punto è che avevo talmente amato questi attori da voler girare di nuovo con loro. A parte la storia con Mathieu Almaric che merita un capitolo a parte, ho lavorato molto anche con Hippolyte Girardot, ma devo dire che il ritrovarsi sul set non agevola le cose, anzi le rende quasi più complicate. È come il terzo o quarto appuntamento con una ragazza. La prima volta è più facile sorprenderla, poi sempre meno. Ogni volta che ci ritroviamo sul set sono nervoso perché mi domando sempre come riuscirò a coinvolgerli nel mio lavoro.
Il mio esordio è stato all’insegna di una grande incoscienza. La storia che avevo scelto per La vie des morts (1991) era molto forte. Si trattava di una riunione famigliare organizzata per dare sepoltura a qualcuno che non è ancora morto. Col passare delle ore l’attesa si trasforma in una sorta di vacanza e come regista la sfida consisteva nel combinare i sentimenti leggeri e divertenti di chi si ritrova in una situazione piacevole con il dolore provocato dall’attesa della fatidica notizia. Ai miei attori dicevo di immaginarsi in un western perché in questi film i luoghi e le comunità ci sembrano molto felici, ma in realtà sappiamo che i loro privilegi sono stati ottenuti a discapito dei nativi. Analogamente, immaginavo la famiglia in questione come una gruppo di persone felici, senza dimenticare che tale stato d’animo era costruito sul dolore e sulla sofferenza dei loro defunti.
Ne I re e la regina (2004) ogni uomo avvicinato dalla protagonista finisce per morire. Molte persone trovavano respingente il personaggio di Nora mentre Almaric e soprattutto l’interprete, Emmanuelle Devos, erano felici di avervi a che fare. Il mio pensiero potrà scandalizzare, ma credo che Nora sia la sintesi di una femminilità cosciente del proprio potere di seduzione e degli effetti mortali del suo eccesso.
Il privilegio del cinema è quello di dare una grande importanza ai personaggi femminili. Non a caso un grande filosofo americano ha detto che la nascita del cinema corrisponde con l’inizio dell’emancipazione della donna moderna. Lo segnalo per sottolineare come la settima arte da sempre abbia sostenuto tale cambiamento attraverso la creazione di grandi personaggi femminili. Anche io, nel mio piccolo, faccio la stessa cosa, attribuendo una valenza mitologica alle donne, e, nel contempo, enfatizzando gli aspetti più ridicoli della controparte. La sequenza di Rio Bravo in cui John Wayne indossa mutande da donna e una ragazza gli fischia dietro penso sia l’esempio del ridicolo di cui parlavo, anche in considerazione del fatto che a esserlo è un simbolo di virilità come Wayne. Ancora, l’importanza dei caratteri femminili ritorna anche ne I fantasmi di Ismael dove sono Carlotta e Sylvia a determinare il destino del protagonista e non il contrario.
In fase di scrittura elaboro frasi che neanche io capisco e che però si rivelano le più riuscite. Quando mi vengono in mente sono il primo a sorprendermi e, allo stesso tempo, so già che agli attori piacerà pronunciarle. Dire, come capita al protagonista de I fantasmi d’Ismael, “Tu sei la mia patria” è qualcosa di enorme e di gratificante per chi la pronuncia; la stessa cosa vale per Sylvia quando dice a Ismael “Ti strapperò la maschera e farò di te un principe”. Sono parole molto forti perché ci si chiede come lei riesca a vedere la grandezza dietro un uomo tanto debole, come pensi di trasformare in principe una persona allo sbando. Sono affermazioni come queste, più grandi dei personaggi a cui le metto in bocca, ad assicurare la riuscita dei miei lavori. Nel cinema realista i personaggi dicono delle frasi più piccole di loro mentre in nei film romanzati succede esattamente il contrario. Anche le sequenze seguono lo stesso procedimento delle parole. Le organizzo mentalmente, poi cerco di capire qual è il significato e come sono arrivate fino a li.
Adoro passare da un genere all’altro, utilizzando la commedia, il melodramma e persino il western. In Racconto di Natale (2008) c’è una scazzottata tra Almaric e Girardot accompagnata da una musica irlandese che non centra nulla con la zona della Francia in cui è ambientata questa situazione. Mi riesce difficile capire il motivo per cui l’ho inserita, forse è una rimembranza proveniente da certe atmosfere che si respirano nei pub d’oltremanica, fatto sta che pur nella sua anomalia il risultato funziona con il resto del film. Questo per dire quanto mi piace passare da un registro all’altro. Senza queste variazioni girare diventerebbe noioso.
Ho usato per la prima volta l’espediente di far parlare l’attore in faccia alla mdp con il personaggio di Esther, una delle protagoniste de Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Nella sequenza incriminata lei è arrivata a un punto morto della sua vita e ne sta per parlare al fidanzato attraverso la lettera che sta scrivendo. Non sapevamo come girare la scena, poi vedendo Emanuelle Devos rivolta verso la mdp ho capito come farla. Nel camera look gli attori non recitano per se stessi ma piuttosto con se stessi, mettendosi a nudo insieme ai personaggi. Di Emanuelle Devos adoro la qualità del viso che può essere bellissimo ma anche sgraziato; la sua bellezza non è sempre cosi evidente e questa sensazione la trovo molto affascinante.
Da giovane ho guardato tantissimo i film di Federico Fellini, poi ho dovuto smettere per riuscire a vedere altro. Cinque anni fa mi è capitato di rivederne l’intera filmografia e 8½ è risultato uno dei miei titoli preferiti. Quando inizio a scrivere una sceneggiatura stilo sempre l’elenco delle opere che possono essere attinenti alla mia. Ne I fantasmi d’Ismael, parlando di un regista che non riesce a finire il suo film è chiaro che in cima alla selezione ci sia il capolavoro di Fellini, come pure Il caimano e Providence di Alain Resnais.
Sono molto affezionato al personaggio di Sylvia. Quando Ismael le chiede come mai non abbia avuto figli lei risponde che è stata solo con uomini sposati, suggerendo di aver avuto fin lì un’esistenza vissuta alla finestra. In questo senso mi identifico molto con lei, anche se ritengo che a un certo punto ci si debba mettere in discussione. Sylvia è esitante a mettersi con Ismael perché lui è uomo che può mettere paura. Quando questo accade e le cose andranno male le è chiaro che non potrà più tornare indietro. La stessa cosa succede a Ester ne I miei giorni più belli. All’inizio la ragazza è piena di fidanzati e nella sua condizione di forza nulla sembra toccarla. Poi si innamora e diventa vulnerabile; pur infelice nella sua nuova condizione è troppo coinvolta per poter lasciare il fidanzato.
Il personaggio di Carlotta (Marion Cotillard) terrorizza perché lei è come una bambina, agisce con una coscienza e una libertà che sono quelle tipiche dell’infanzia. Quando il padre, in di vita, le chiede di farlo morire essa rifiuta proprio perché non concepisce l’idea della fine. Nella scena in cui balla sul pezzo di Bob Dylan o quando si presenta nuda davanti a Ismael è eccitante, elettrizzante ma allo stesso tempo sconvolge per il suo vitalismo.
Ho diversi dubbi sulla possibilità di adattare le opere dei grandi drammaturghi perché non credo di poter trovare una chiave originale per trattare questi lavori. Non ho studiato per cui non sono un accademico. Avendo iniziato a lavorare sul set a diciassette anni e sperimentato ogni tipo di mestiere, mi limito a prendere in prestito i testi dei grandi autori teatrali e letterari e cerco di inserirli nei film. Mi piace mettere in contrasto riferimenti così alti con questioni più prosaiche. Spero di non perdere mai la passione di combinare cose banali con argomenti più nobili. Ne I miei giorni più belli questa cosa è sintetizzata dalla sequenza in cui il protagonista per convincere la professoressa di greco a prenderlo nella sua classe le dice che con lui potrà avere almeno uno studente non all’altezza della situazione. Sono queste le situazioni che amo.
C’è una parola che ho conosciuto tardi ma che ho imparato a utilizzare, ed è Epifania. L’ho presa da James Joyce e mi serve per spiegare il miracolo che avviene durante il montaggio dei miei film. Si sta lì a cercare di mettere insieme una scena e di colpo questa emerge da sola, lasciandoti stupito. Dopo aver visto Gente di Dublino di John Huston comprai l’Ulisse senza però riuscire a leggerlo. Successivamente mi sono affidato a Nabokov che è capace di spiegarlo passo per passo e improvvisamente le difficoltà sono state superate. Leggendo il libro di Joyce mi sono imbattuto per la prima volta in un personaggio maschile che aveva un rapporto terribile con la madre. Per quanto ne sapevo io il cinema e la letteratura avevano preferito mettere le figlie contro le proprie madri; scoprire il contrario è stato davvero strepitoso.
Sono commosso di trovarmi nella sala di Nanni Moretti. Prima di diventare regista temevo che non sarei mai riuscito a trovare la mia voce. Poi sono successi due fatti miracolosi: il primo è stata la lettura di Philip Roth, il secondo la visione dei film di Nanni Moretti. Vederli mi ha illuminato perché ho capito la possibilità che avevo come regista di mascherarmi da me stesso. Nei suoi film lui è Moretti, lo vediamo come se stesso e come un altro che indossa la sua stessa maschera. Per me è stata un sorta di rivoluzione copernicana ed è per questo che gli sarò sempre grato per avermi indicato la strada che volevo seguire.