Strepitoso esordio alla regia per la francese Marie Garel-Weiss che con La Fête est finie (The party’s over) emoziona, commuove e stupisce in quanto a bravura e talento. Era da tempo che non capitava di imbattersi in un’opera così dannatamente bella, per certi versi (che si azzardi pure) perfino così perfetta. L’esaltazione scaturisce spontanea da quel mix di fattori che fanno di un ‘semplice’ film un’opera al di là delle solite classificazioni. Perché è questo quello che si pensa dopo averlo visto. È il Cinema con la c maiuscola, signori. Rammarica che saranno i soliti fruitori a goderne, per quel peccato originario di cui non si è ancora liberata l’attuale distribuzione (è il classico film da festival, per intenderci. Ci saranno sale in cui verrà proiettato? Ne dubitiamo fortemente).
Ma torniamo a La Fête est finie che, tanto per cominciare, è un film tutto al femminile. È la storia di Celeste e Sihem (le bravissime Zita Hanrot e Clemence Boisnard), della loro amicizia, del legame che le unirà sin da subito, ossia sin dal primo momento in cui si incontrano in un centro di recupero. All’inizio si potrebbe erroneamente pensare al classico film sulla tossicodipendenza (modello Trainspotting). E, invece, è proprio un altro il fulcro su cui ruota e si sviluppa la narrazione. La droga c’è, è presente (siamo pur sempre in un centro di recupero), ma in modo assolutamente accessorio e marginale. La festa è finita per queste due ragazze che troveranno redenzione e riscatto l’una grazie all’altra. Sono come due bambine: fanno il bagno e dormono insieme, scappano dal centro di notte in bici per andare a mangiare un kebab, ridono e scherzano autoescludendosi dal resto del gruppo. L’amicizia che man mano stringono sarà la loro forza e il loro limite, perché si rivelerà un ostacolo quando verranno espulse dal centro e si ritroveranno ad affrontare il mondo e la vita reale. Ed è allora che avrà inizio la lotta per la libertà e il riscatto. Svariate le difficoltà e i momenti di cedimento che si presenteranno una volta fuori da quel rifugio sicuro (la ricerca di un posto dove andare a vivere, l’incontro con i rispettivi genitori, il bisogno di un lavoro, una serata in discoteca con collasso finale dell’amico-pusher), che le porteranno a confrontarsi, perdersi e ritrovarsi definitivamente.
La regista dice d’essersi ispirata molto a Fatih Hakin per raccontare questa storia in cui si intrecciano i destini di Celeste e Sihem e dove l’abuso di droghe non è desiderio di morte quanto incontenibile voglia di vita. E fa niente se poi non ha girato quello che desiderava fosse il suo primo film, ossia un horror (ce lo raccontava lei stessa ieri sera durante l’incontro col pubblico: i produttori hanno optato per questa che, a loro dire, funzionava di più come storia). A differenza dell’Italia, in Francia è più facile reperire i fondi per girare un’opera prima, ed effettivamente della qualità e della vitalità del cinema francese non si possono avere dubbi. Soprattutto dopo la visione di La Fête est finie. Sarebbe bello se a vincere l’Ulivo d’oro fosse proprio Marie Garel-Weiss. Facciamo il tifo per lei.
Sara Patera