Quello di Arnaud Desplechin è un cinema da maneggiare con cura per evitare il rischio di vederselo scivolare dalle mani. D’altronde, se c’è una cinematografia allergica alle classificazioni è proprio quella del cineasta francese, il quale, per nulla scoraggiato dalla volubilità del pubblico pagante e incurante dei giudizi della critica più cinefila, continua imperterrito a filmare tasselli di un universo a se stante, dove le rimembranze dei ricordi personali si mescolano con motivi che nascono dagli interessi più disparati del regista: non solo il cinema, inteso come contenitore di memorie perdute ma, più in generale, materie come scienza, psicoanalisi e filosofia, le quali, in un rapporto dialettico con il farsi degli eventi, si offrono al protagonista come strumenti per tentare di decifrare il caos che lo circonda.
Alla pari di ciò che faceva Essere John Malcovich di Spike Jonze, anche ne I fantasmi d’Ismael l’osservazione del film permette allo spettatore di entrare nella testa (e nel cuore) del regista, permettendogli di immergersi nel flusso visivo che scaturisce da quel coacervo di sinapsi e impulsi elettrici. Senza alcuna intenzione di realismo che non sia quello di riportare con esattezza epistemologica le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi, il film punta in tutt’altra direzione, sottoponendo la linearità della storia a detour narrativi che restituiscono come meglio non si potrebbe gli alter ego del regista.
Per riuscire a farlo, Desplechin sintonizza il montaggio sugli umori del protagonista e sull’evolversi della sua condizione psicologica, destabilizzata fino alla follia dalla comparsa di Carlotta (Marion Cotillard), l’ex moglie tornata dal passato e causa del malessere in grado di mettere in crisi il menage tra Ismael e Sylvia (Charlotte Gainsbourg). Così, se le immagini riferite ai momenti più felici sono collegate con ferrea razionalità, quando il fantasma di Carlotta inizia a incalzare Ismael, il deragliamento sensoriale dell’uomo viene trasferito sullo schermo da una consequenzialità più labile, derivata non tanto dal nesso di causa-effetto provocato dai suoi comportamenti, ma frutto di uno sparpagliamento sequenziale corrispondente all’anarchia degli stati d’animo.
Da qui la conferma di un cinema, quello di Desplechin, che per essere compreso nella sue sfaccettature ha bisogno di un coinvolgimento attivo da parte dello spettatore, chiamato con la sua volontà a entrare in sintonia con la complessità dei personaggi di Desplechin. Nondimeno, la presa di coscienza sull’impossibilità di restringere il campo di indagine nel tentativo di decostruire il film in questione non può fare a meno di trovare punti d’appiglio, come capita quando ci si imbatte nella continuità de I fantasmi di Ismael con I miei giorni più belli. Caratteristica riferibile tanto ai contenuti, per la contiguità delle esperienze vissute dai protagonisti dei due film, i quali, raccontanti in diverse fasi della vita (nel primo film, la giovinezza, nel secondo, l’età adulta) condividono lo stesso cognome (Dedalus) e potrebbero essere addirittura fratelli; quanto alla forma che ne I fantasmi d’Ismael, così come nell’altro, è frutto di una commistione di generi capace di mescolare dramma e commedia, grottesco e melodramma, arrivando a far convivere l’intimismo del paesaggio francese con il gioco di specchi e gli infingimenti del deserto orientale destinato a fare da sfondo alla spy story che a intermittenza si inserisce nella vita dell’irrequieti protagonisti.
Ma il romanzo cinematografico di Desplechin è prima di tutto il modo utilizzato dal regista per esorcizzare le proprie ossessioni, tra le quali ancora una volta hanno un posto di rilievo la morte – reale o metaforica -, intesa come perdita dei propri cari, e la prospettiva di un’esistenza consegnata alla sua versione più mitologica e fantasmatica. Il tutto accompagnato da una tragicità che – alla pari delle ultime opere di Bruno Dumont – si pone in antagonismo con i mali della contemporaneità facendosene sberleffo con il ridicolo in cui spesso si rifugia la disperazione di Ismael. A differenza del suo collega, però, Desplechin lo fa con una passione cinefila certificata, tra le altre cose, dalla presenza di due icone del divismo francese come Charlotte Gainsbourg (alla quale il regista offre uno dei più bei ruoli degli ultimi anni) e Marion Cotillard, con le quali il regista conferma di saper declinare le sue storie con una sensibilità che funziona sia con i personaggi maschili che in quelli femminili. Film d’apertura della 70ma edizione del Festival di Cannes e punta di diamante del focus dedicato al cineasta di Roubaix da parte del Rendez-Vous 2018, Festival del nuovo cinema francese, I fantasmi di Ismael è un titolo imprescindibile nella filmografia del regista.