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‘Liberami’ il documentario di Federica Di Giacomo vincitore di Orizzonti al Festival di Venezia

Già premiata al Torino Film Festival per Il lato grottesco della vita (2006), Federica Di Giacomo conferma con Liberami, un documentario sul ritorno dell’esorcismo nel mondo contemporaneo, un talento non comune. Il film è stato premiato con il Leone come Miglior Film nel Concorso Orizzonti alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia

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Liberami è un film documentario del 2016 diretto da Federica Di Giacomo sul ritorno dell’esorcismo nel mondo contemporaneo, scritto dalla regista insieme ad Andrea Sanguigni. Il film è stato premiato con il Leone come Miglior Film nel Concorso Orizzonti alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia (2016).

La trama di Liberami

Un film sul ritorno dell’esorcismo nel mondo contemporaneo. Il nostro mondo. Ogni anno sempre più persone chiamano “possessione” il loro malessere, in Italia, in Europa, nel mondo. La Chiesa risponde all’emergenza spirituale nominando un numero crescente di preti esorcisti ed organizzando corsi di formazione. Padre Cataldo è un veterano, tra gli esorcisti più ricercati in Sicilia e non solo, celebre per il carattere combattivo ed instancabile. Ogni martedì Gloria, Enrico, Anna e Giulia seguono, insieme a tantissimi altri, la messa di liberazione di padre Cataldo e cercano la cura ad un disagio che non trova risposte né etichette. Fino a dove ognuno di noi, credente o meno, è disposto ad arrivare purché qualcuno riconosca il nostro male? Cosa siamo disposti a fare per essere liberati qui ed ora? È la storia dell’incontro fra la pratica esorcista e la vita quotidiana dove i contrasti tra antico e contemporaneo, religioso e profano, risultano a tratti inquietanti a tratti esilaranti. Un film non sulla religione ma su come la religione può essere vissuta.

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Il dinamismo della macchina da presa di Federica Di Giacomo – da un documentario ci si aspetterebbero solo inquadrature fisse e con una certa distanza dal profilmico per agevolare lo spontaneo accadere dei fatti – sorprende davvero, laddove riesce, nonostante la prossimità alle persone e agli eventi, a mantenere il necessario distacco per non influenzare lo spettatore, pur trascinandolo nel cuore dell’azione. L’insistenza sui volti e sulle situazioni dilata a dismisura l’empatia di chi guarda. Ma, al tempo stesso – e questo è il grande merito della regista, giustamente premiata per il miglior film nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia – non esercita alcuna ulteriore sollecitazione anzi, semmai l’effetto è contrario: è come se, avvicinandosi sempre più ai corpi, la rappresentazione subisse un cortocircuito, interrompendo la capacità di presa del tipico atteggiamento intenzionale che vorrebbe ordinare all’interno di una rigida griglia tutto ciò che si manifesta nel proprio spettro d’azione.

La visione di Federica Di Giacomo in Liberami

Insomma, quella di Federica Di Giacomo è un’amplificazione visiva che neutralizza la carica simbolica dei fatti, trasformando le immagini in un flusso visivo in cui lo spettatore si immerge, facendo esperienza di qualcosa che in seguito, proprio in virtù della ricercata evanescenza, farà quasi fatica a riferire. Un documentario, che per antonomasia dovrebbe trattare frontalmente la realtà, diviene paradossalmente lo strumento attraverso cui far collassare le inflessibili prospettive d’osservazione, lasciando emergere un ‘mondo altro’ (quello emotivo, fuori dalla storia) che si giustappone, quasi sovrapponendosi, all’ordinaria cronaca dell’esistente.

La libertà

Il pregio di Liberami è soprattutto formale. E la sofferenza dei vari soggetti che sfilano per novanta minuti sullo schermo acquista valore, innanzitutto e per lo più, grazie al lavoro di sottrazione, di riduzione, esercitato rispetto a tutti quegli elementi (contestualizzazione, localizzazione, individuazione) che non avrebbero sortito altro effetto se non quello di allontanare dal vivo degli eventi. Un Evento – un esorcismo, il rituale di liberazione da una possessione, sia essa vera o presunta, è un Evento – eccede i soggetti che sono coinvolti, convocandoli ad assumere una fedeltà infinita, senza la quale decadrebbe la possibilità che esso continui a verificarsi, e, dunque, l’unico modo di coinvolgere lo spettatore è quello di catapultarlo all’interno del vuoto che ‘erra tra i termini della situazione’, in quello spazio residuo capace di dare alloggio a ciò che per sua natura sfugge a qualsiasi tentativo di presa.

Si tratta di stare continuamente in agguato, di preparare il terreno per l’incessante attività di traduzione simbolica rispetto a qualcosa che resiste a mostrarsi in quanto fenomeno.

E colpisce, allora, l’ostinazione di Federica Di Giacomo, che dopo tre anni di intenso lavoro è riuscita nel titanico tentativo di preservare lo statuto ontologico di una realtà per lo più celata allo sguardo e che chiedeva di essere esibita con grande pudore, proprio per permettere allo spettatore di produrre un giudizio riflettente, il solo capace di dare dignità alla rassegna di dolore che trafigge senza lasciare possibilità di replica. Un profondo rispetto pervade il credente e l’ateo, giacché ciò di cui si è stati testimoni non ammette osservazioni ulteriori, il solo suo apparire, prendere forma, è un fatto straordinario che deve essere vissuto con riserbo e silenzio,  con quell’atteggiamento comunitario capace di fornire un’accoglienza infinita.

Già premiata al Torino Film Festival per Il lato grottesco della vita (2006), Federica Di Giacomo dimostra anche in questa occasione un talento non comune, imponendosi come una degli autori più significativi del documentario italiano contemporaneo.

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