Giunto al suo tredicesimo lungometraggio, dopo una carriera brillante in cui si è confrontato con diverse modalità di rappresentazione della fisionomia del nostro paese, Daniele Luchetti, probabilmente esasperato dai toni seriosi e retorici di cui il nostro cinema ha spesso abusato, si è lanciato a gamba tesa nell’ardito (e benvenuto) tentativo, tra realismo e favola, di dare corpo all’evanescenza etica di un mondo sempre più disorientato, incapace di trovare saldi riferimenti che facciano da guida. Se tale prospettiva appare senz’altro condivisibile, un po’ meno, invece, lo è la pretesa di far passare un film che senza dubbio (e per fortuna) prende posizione per una fotografia imparziale della realtà di oggi: insomma, il cinema, quando non si pone con l’asettica distanza che solo Frederick Wiseman è in grado di mantenere, è sempre una messa in scena, una ricostruzione e, dunque, un’interpretazione di ciò che vuole raccontare. Allora, ci si chiede, perché fingere di non esprimere un sacrosanto giudizio?
Sebbene Io sono Tempesta fluttui in atmosfere sognanti e assai ludiche, un po’ alla stregua del realismo fantastico di Miracolo a Milano (1951) della coppia De Sica – Zavattini, quantunque con umori ed esiti certamente molto differenti, non manca di segnalare con fermezza la vacuità di un’umanità ormai annichilita da una pervasiva logica economica, penetrata in ogni ambito della vita. In altre parole, non ci si limita a denunciare banalmente la rincorsa generalizzata al profitto, ma si stigmatizza anche, con piglio, quanto i sentimenti, gli affetti e tutto ciò che concerne la sfera più intima, e in un certo senso sacra, dell’anima siano stati raggiunti dal tocco gelido della dimensione dello scambio. Numa Tempesta (Marco Giallini), Bruno (Elio Germano) e Angela (Eleonora Danco) incarnano tre tipologie umane che si sfiorano inaspettatamente per la fatalità di un evento (l’affidamento ai servizi sociali del ‘furbetto’, ma a suo modo geniale, Tempesta, condannato per un reato finanziario) che li connette, senza, tra l’altro, provocare un vero cortocircuito (semmai un rovesciamento che, ancora una volta, conferma la validità dell’assetto di partenza).
Angela, l’unico personaggio che sembrerebbe tenere dal punto di vista morale, viene tratteggiata come una donna sostanzialmente instabile (non fa sesso da sei anni), che sublima la propria frustrazione da desiderio inappagato (per dirla con Shohei Imamura) dedicandosi, muscoli, cuore e nervi, alla causa dei senza tetto, degli ultimi, degli esclusi (come spesso li appella il filosofo sloveno Slavoj Žižek). Senza, però, incagliarsi in questo dettaglio, Io sono Tempesta può essere senza dubbio considerato un buon film, in cui, con originalità di sguardo, viene descritta, attraverso una pennellata ‘espressionista’ densa e satura di colore, l’epoca “della fine degli –ismi”, come la definisce lo stesso Luchetti. Al tempo della vita scandita dal numero di ‘mi piace’ ottenuti sui social network, i nuovi strumenti attraverso cui ognuno può dare corpo al proprio personalissimo ‘spettacolo’ quotidiano, appare più che mai difficile trovare un sentiero da percorrere per intraprendere una direzione sicura (anche se, viene da chiedersi: erano meglio gli spettacoli ‘diffusi’ e ‘concentrati’ di cui parlava Guy Debord ne La Société du spectacle?).
Alla luce di quanto detto, il film di Luchetti, scritto dallo stesso regista insieme al veterano Sandro Petraglia e alla giovane e talentuosa Giulia Calenda, fornisce una lettura verosimile di una trasformazione che ha radicalmente modificato l’assetto antropologico del nostro paese, dando corpo a una situazione tragicomica che, opportunamente, richiedeva il tono da “farsa sociale, da opera buffa” (tra l’altro il personaggio di Numa Tempesta, rivela Luchetti, costituisce un po’ un alter ego cinematografico, riveduto, corretto e aggiornato, del Don Giovanni mozartiano).
Si potrebbe muovere un’osservazione finale al complesso dell’operazione cinematografica in questione: fatti salvi la bontà della prospettiva e il risultato dell’interpretazione, ci si chiede: perché, però, non azzardare una previsione del futuro? Nell’epilogo, che ovviamente non sveliamo, si fanno delle allusioni abbastanza chiare. Ma siamo sicuri che la fine delle ideologie costituisca una perdita incolmabile? Se è vero che oggi si naviga a vista, perché non provare a scommettere su un avvenire che non è stato ancora, per fortuna, consegnato definitivamente alle fiamme dell’inferno? Guillermo Del Toro lo ha fatto con la sua bella favola, giustamente premiata con gli Oscar più significativi. E se ogni tanto anche il cinema italiano provasse a guardare a ciò che deve accadere con un filo in più di speranza? Luchetti, per evitare il piagnisteo, si gioca la carta della burla, e ha fatto bene. E se, invece, avesse cercato di delineare uno scenario davvero realistico, segnato da un destino più benevolo?
Prodotto da Cattleya e distribuito da 01 Distribution, Io sono Tempesta sarà nelle sale cinematografiche a partire dal 12 Aprile.