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Contrasto

L’antirealismo

CONTRASTO, prima puntata. Nasce CONTRASTO, la nuova rubrica di TAXI DRIVERS in cui Pasquale D’Aiello, critico e regista cinematografico, analizza il rapporto intercorrente tra cinema e politica, nel tentativo di valutare la capacità della settima arte di incidere sulla realtà contemporanea. Attraverso un percorso che si svilupperà intorno ad alcuni autori e a stagioni cinematografiche specifiche, l’autore traccerà un itinerario all’interno del quale fare emergere lo stato attuale dell’arte di massa per eccellenza. Rubrica a cura di Pasquale D’Aiello

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Esiste ancora un movimento di estetizzazione della politica. Certo, sono lontani i tempi del gesto eroico che ambiva ad essere narrato dall’epopea, in stile marinettiano. Troppe lacerazioni hanno mostrato la fragilità di quella trama. Eppure, oggi la politica non ha smesso di ammiccare alla narrazione eroica per sopperire alla miseria della sua prassi. L’attuale presidente degli Stati Uniti, ambisce ad essere raccontato come l’uomo che tenta la razionalizzazione di Wall Street e l’introduzione di un sistema sanitario garantito per una buona parte degli statunitensi, in realtà è, più significativamente, l’uomo che ha salvato le banche con soldi pubblici e che continua le guerre iniziate da Bush. Se dal centro dell’impero volgiamo lo sguardo al nostro periferico paese, risulta ancora più evidente quanto la politica riesca ad ammantarsi di valori che non possiede. E così i governi della cosiddetta seconda repubblica, senza distinzioni tra destra e cosiddetta sinistra, che hanno sistematizzato lo smantellamento del welfare state, che hanno violentato i fondamenti della costituzione repubblicana, precipitando il nostro paese in guerre di aggressione, riescono a mantenere apparentemente viva una dialettica tra due identici poli, simulando insussistenti diversità di valori.

In sostanza, anche oggi è possibile riconoscere la presenza di quel tentativo di estetizzazione della politica che è una  delle caratteristiche tipiche del fascismo come evidenziava Benjamin nel suo saggio “L’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica”. Pur senza richiamare nella sua interezza l’elaborazione dell’autore, che oggi appare in parte superata, resta valida l’esigenza, che lì veniva espressa, di attivare un soggetto antagonista che risponda con un movimento di politicizzazione dell’arte, onere che lì veniva addebitato direttamente al movimento comunista. Anche rinunciando alla pretesa più totalizzante di Benjamin, che si era spinto fino ad immaginare una sostanziale continuità tra la realtà e la sua espressione cinematografica, resta evidente che una narrazione di tipo realistico resta a tutt’oggi una potente risorsa, anche se non unica, che permette all’arte, ed al cinema in particolare, in quanto intimamente connesso alle masse, di intervenire politicamente nella realtà. Ma gli antagonisti, cui affidare questo onere, non offrono segni d’esistenza, o forse, più propriamente, non sono visibili, sono emarginati, ridotti al silenzio, con armi spuntate.

Oggi regna ovunque una sorta di antirealismo, ovvero un’azione positiva ed affermativa che s’ingegna a contrastare e ridurre all’afasia ogni espressione del realismo. Tale azione si esplica sia nella forma palese e arrogante, quando impone sempre e ovunque la predominanza dei toni a-realistici (comico, surreale, irreale, favolistico, pop, etc), sia nella forma indotta, quando indebolisce il tono espressivo di chi intende affrontare politicamente questioni della realtà, insinuandosi nelle fibre dei tessuti narrativi,  permeandoli di alleggerimenti, divagazioni, attenuazioni. Tale pressione è visibile in un varietà di forme: nell’impostazione recitativa, nella composizione degli intrecci narrativi, nella definizioni dei personaggi che sono spessissimo dotati di un, seppure minimo, versante comico, anche quando esplicitamente drammatici, etc. Per meglio comprendere il senso delle affermazioni precedenti, limitandoci al solo tema del lavoro, si pensi, come esempio della prima fattispecie, a Bread and roses di Ken Loach o, per restare in Italia, a Sud di Salvatores. Per quanto concerne le forme indotte, queste sono particolarmente evidenti proprio in Italia, si pensi al film di Francesca Comencini, Mi piace lavorare, o Il posto dell’anima di Riccardo Milani.

Se proviamo a volgere lo sguardo alla produzione culturale più fortemente influenzata dal fascismo durante il ventennio, è possibile rilevare l’esorbitare delle produzioni (cinematografiche, teatrali, etc) comiche, in particolar modo di una comicità leggera, di pura evasione, che aveva il compito, premeditato da un ministero ad hoc (MinCulPop), di distrarre le menti dei sudditi italiani. In alternativa alla pura evasione veniva offerta una produzione epico-eroica che poteva assumere le forme della rievocazione storica nazionalistica, del culto del gesto atletico o della venerazione del capo e sovente rivolta alla ricerca della benedizione ed alleanza clericale.

Oggi assistiamo all’affermarsi di un movimento simile, dove il ruolo di testa di ariete viene svolto dal medium televisivo e da uno dei suoi specifici generi narrativi, la fiction (tralasciamo per il momento le forti suggestioni che la teoria di Mcluhan offre in merito a tale connessione) che, insieme, hanno la forza di permeare di sé anche i media e i generi attigui. Ed è così, quasi per osmosi, che anche nel genere drammatico cinematografico si insinuano le caratteristiche di a-realismo tipici della fiction televisiva.

Affinché non si cada in equivoci, vale la pena ribadire che non c’è nessuna tentazione di riproporre una sciocca e vana guerra al fantomatico secondo libro della poetica aristotelica, in stile Il nome della rosa, per contrastare aprioristicamente il genere della commedia e neppure tutti gli altri registri (narrativi, recitativi, etc) non realistici (che generano una pluralità di possibilità narrative che del cinema sono una specificità ed un patrimonio). L’unica motivazione che spinge a fare queste riflessioni è il desiderio di registrare e disvelare lo stato di sudditanza che le espressioni realistiche subiscono nel cinema a causa delle incursioni e contaminazioni degli altri generi e registri che provengono dalla televisione, attraverso la mediazione del cinema di evasione, che assottigliano sempre più i margini di autonomia di un’espressività autenticamente e totalmente realistica.  Questa condizione è particolarmente visibile in Italia, dove i poteri ‘della televisione’ (in particolar modo commerciale) sono strabordanti e il livello della democrazia declina verticalmente.

Oggi il cinema artistico e quello d’evasione, contrariamente a quanto prospettava Benjamin, non convergono come generi, ma assistiamo ad un’incursione di quest’ultimo ai danni di quello artistico, quasi a sostanziare la tentazione di (ed invito alla)  mollezza e cedimento di un pubblico stanco di riflettere (quando ormai già non del tutto incapace a farlo) e disabituato ad immaginare azioni (ma anche immagini) di resistenza e contrattacco. Il cinema è la prima vittima di tale pressione antirealistica, proprio in virtù di quella connessione con le masse che non era sfuggita neppure al capo del fascismo.

Con queste osservazioni, apriamo uno spazio di riflessione sul rapporto tra cinema e politica che si è voluto chiamare contrasto, non per mancanza del senso del limite ma per affermare la necessità di dialettica, che in questo momento assume la forma dell’opposizione e della resistenza al movimento prevalente. Ma sempre pronti al contrattacco.

Pasquale D’Aiello

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