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Il solista

«Dopo “Orgoglio e pregiudizio” ed “Espiazione”, ne “Il solista” Joe Wright mette in scena la vita del violoncellista Nathaniel Ayers, un prodigio musicale affetto da schizofrenia».

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La dicitura “Tratto da una storia vera” è un segnale forte e chiaro lanciato da sceneggiatori e da registi allo spettatore di turno, per metterlo in guardia su ciò che il film in questione sta per raccontare e mostrare alle sue orecchie e ai suoi occhi. Talvolta le storie che vengono portate sul grande schermo possono apparire talmente straordinarie e mirabolanti che convincere il pubblico della veridicità di fatti e personaggi che le hanno animate e vissute appare alquanto difficile. Arduo è più che altro convincere che certe storie, per quanto impossibili o magiche, non sono il frutto della fervida immaginazione di qualche addetto ai lavori trasferita prima su carta e poi su pellicola, ma la pura e semplice verità, seppur romanzata e sintetizzata attraverso parole, suoni, gesti e immagini.

La vicenda narrata ne Il solista di Joe Wright, in tal senso, non fa eccezione, seguendo la scia lasciata nel corso del tempo da migliaia di film che, nel bene e nel male, hanno raccontato le vite di altrettanti esseri umani, vite fuori dagli schemi di quella che ancora erroneamente ci ostinamo a chiamare ‘normalità’. Ma cosa è ‘normale’ e cosa non lo è?, anche perché, nella maggior parte dei casi, la linea che separa la follia dalla genialità è talmente sottile che riuscire a stabilire con certezza dove finisce l’una e inizia l’altra diventa compito difficilissimo. Questo è proprio il caso di Nathaniel Ayers, un prodigio musicale che, dopo esser stato dichiarato schizofrenico, ai tempi in cui frequentava l’Università, si troverà a suonare con il suo violoncello per le strade di Los Angeles con un unico grande sogno nel cassetto, esibirsi nella storica Disney Hall. Grande amante di Beethoven, l’homeless trova nel giornalista del Los Angele Times, Steve Lopez, un amico che proverà in tutti i modi ad aiutarlo ad esaudire il suo desiderio.

La mente del cinefilo corre inevitabilmente a un altro personaggio la cui esistenza, come quella di Ayers,  continua a consumarsi in perenne equilibrio tra genio e follia, ossia quella del pianista australiano David Helfgott, dichiarato pazzo, ma capace di grandi esibizioni, le cui gesta vennero raccontate nell’intenso e toccante Shine. A interpretarlo magistralmente nella pellicola diretta da Scott Hicks nel 1997, fu un immenso Geoffrey Rush, qui alle prese con il personaggio più sofferto e complicato della sua lunga carriera, che gli valse nello stesso anno Oscar e Golden Globe. Dunque è impossibile non accostare la figura di Helfgott a quella di Ayers e, di conseguenza, diventa automatico trovare punti di contatto tra il biopic firmato da Wright e quello diretto da Hicks. Entrambi si nutrono a loro modo di emozioni, perchè fanno dell’empatia e del coinvolgemento celebrale con lo spettatore i motori portanti. Entrambi godono e sfruttano a pieno delle monumentali interpretazioni dei loro protagonisti, con un Jamie Foxx in stato di grazia nei panni del violoncellista americano. Del resto, l’attore afro-americano non è la prima volta che si confronta e presta volto, corpo e voce, ad un film incentrato su un personaggio realmente esistito del mondo della musica (ossia il grande Ray Charles). Un ruolo non facile quello affrontato in Ray (di Taylor Hackford, 2004), premiato con un meritatissimo Oscar, che lo ha lanciato definitivamente nello star sytem internazionale. Ciò che distanzia le due pellicole è purtroppo la loro riuscita, con uno Shine che conserva intatta, dal primo all’ultimo fotogramma utile, una straordinaria e solida concretezza e immediatezza narrativa, frutto di un’attenta costruzione drammaturgica degli eventi e di un ottimo sviluppo dei personaggi in fase di scrittura della sceneggiatura. Componente drammaturgica che, al contrario, si rivela come l’accordo sbagliato nella sinfonia orchestrata ne Il solista da Wright, che si trova a fare i conti con uno script squilibrato firmato dall’autrice di Erin Brockovich (di Steven Soderbergh, 2000) Susannah Grant che, documentandosi attraverso gli articoli del vero Steve Lopez (qui interpretato in maniera impeccabile da un redivivo Robert Downey Jr.), mette su carta una struttura fragile e discontinua che, il più delle volte, si perde in un’artificiosa e meccanica concatenazione tra presente e passato (i flashback dell’infanzia di Ayers).

Da parte sua il regista londinese, classe 1972, alla sua prima regia a stelle e strisce dopo Orgoglio e pregiudizio (2005) ed Espiazione (2007), si limita a mettere in scena la storia con la precisione e la ‘pulizia’ stilistica già mostrate nelle opere precedenti. Grande attenzione per l’interazione tra spazio e attori (vedi la rappresentazione del quartiere losangelino di Skid Row, habitat e rifugio della grande popolazione dei senzatetto), oltre alla cura maniacale per i dettagli e per i movimenti di macchina. Il risultato è un film che sopravvive grazie alle riuscitissime interpretazioni della coppia Foxx-Downey Jr., alla cura visiva della messa in scena e a quelle poche ma convincenti sequenze che non soffrono di artificiosità narrativa, ma che si abbandonano al flusso naturale del racconto e ai duetti tra i protagonisti.

Francesco Del Grosso

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