Piccoli allevatori crescono nella Francia agricola odierna, in un contesto bucolico, genuino e familiare, finché il destino cinico e baro ed un’imprevista epidemia del bestiame, sovvertiranno la realtà del protagonista Pierre in modo brutale, spazzando via ogni certezza, sogno e futuro. Questa in sintesi la storia raccontata nel convincente film d’esordio del regista francese classe 1985 Hubert Charuel – figlio di agricoltori ed esperto di allevamento – presentato a ‘La Semaine de la Critique’ del Festival di Cannes, pluripremiato al Festival du film francophone d’Angoulême e insignito del ‘Premio Foglia d’Oro’ al Festival France Odeon di Firenze.
Pierre, dunque, è il Petit Paysan del titolo, un giovane ed appassionato allevatore di mucche, una persona solare e contenta di trascorrere la giornata con la mandria cresciuta ed allevata dai suoi genitori, con i quali vive ancora nella fattoria di famiglia; la sorella, più indipendente e concreta, è una veterinaria, molto legata al fratello. La vita sembra sorridere a Pierre quando escono le statistiche relative agli allevamenti della sua regione: lui risulta primo in classifica, per produzione e qualità del latte, e viene chiamato scherzosamente ‘il principe delle mucche’. Ma un brutto giorno tutto cambia e una malattia terribile che colpisce i bovini inizia a diffondersi nella zona e il nostro protagonista apprende dai media, facendo ricerche su Internet ed ascoltando storie di altri piccoli allevatori, che – come ai tempi della ‘mucca pazza’ cui il film fa chiaro riferimento – anche se un solo capo di bestiame risulta malato, le squadre sanitarie abbattono l’intera mandria, portando alla disperazione e spesso alla miseria i malcapitati allevatori. Per difendere la sua mandria, nella quale ha scoperto un caso di contagio, Pierre si mostrerà disposto a tutto, anche ad uccidere, rubare, occultare, mentire ad amici e parenti: lotterà contro tutto e tutti (coinvolgendo inizialmente la sorella nei suoi segreti ‘misfatti’) per l’immenso amore che nutre verso i suoi animali, le mucche che ogni giorno munge, accarezza, pulisce, fa nascere. Emblema di questo suo disperato amore è il vitellino, ultimo nato, che tiene in casa sul divano come fosse un bambino e dal quale, nel tragico finale, con la morte nel cuore, sua e di tutti gli spettatori, sarà costretto a separarsi traumaticamente.
Petit Paysan, girato con l’arte e la maestria di qualcuno che ben conosce il contesto dell’allevamento e la psicologia degli animali, è un profondo omaggio all’amore e al rispetto per la natura, per la vita agricola, per gli animali che ci danno da vivere, nonostante l’avanzare della modernità, e dei legami profondi, viscerali. La luce, in un primo tempo solare e calda, a poco a poco si fa più scura, offuscata, tetra. La cura dei dettagli e l’ottima sceneggiatura conferiscono a questa opera prima una tensione simile a quella di un thriller, favorita dal montaggio ed al ritmo serrato, specialmente in alcune parti del film. Da notare che gli attori sono in gran parte non professionisti, a cominciare dai genitori e dal nonno di Charuel stesso, che interpretano il ruolo del padre di Pierre, dell’ispettrice che controlla il latte e del simpatico vicino anziano scocciatore. Il film è distribuito da No.Mad Entertainment.
INTERVISTA A HUBERT CHARUEL (brevi note di regia)
Vieni da una famiglia di allevatori?
I miei genitori hanno una fattoria, come i loro genitori prima di loro. La loro fattoria si trova a Droyes, fra Reims e Nancy, a venti chilometri dal paese più vicino, Saint-Dizier. Sono sopravvissuti alla crisi casearia grazie al duro lavoro, a piccoli investimenti e prestiti. Ci vuole molta intelligenza e duro lavoro per sopravvivere.
Hai mai pensato di prendere in mano la fattoria?
Nel 2008 io e mia madre abbiamo avuto un incidente d’auto. Sono stato con lei per sei mesi. Durante quei sei mesi di disciplina ultra- rigorosa, ero al meglio della forma fisica e mentale!, Sono stato bene, me la sono cavata con le vacche, tanto che l’ispettore lattiero- caseario ha detto ai miei genitori: “È un vero guardiano!”
La stessa «routine inebriante» che Pierre vive nel film.
Assolutamente. Alla fine ho capito che mi sentivo bene perché sapevo che sarebbe finita. Sono figlio unico. Mia madre é andata in pensione poche settimane fa. Quindi sono l’unico figlio che non prenderà le redini della fattoria dei suoi genitori. Petit Paysan parla della grande pressione che si vive in un’azienda agricola: si lavora sette giorni alla settimana, bisogna mungere le vacche due volte al giorno, tutto l’anno, tutta la tua vita. Il film tratta anche dei rapporti con i genitori che sono sempre fra i piedi, sul peso di quel patrimonio. I gesti sono sovra-ritualizzati. Si va a mungere come se si andasse a pregare, di mattina e alla sera. Essere un produttore di latte è una vocazione.
Com’è nata l’idea del film?
La crisi della mucca pazza ha lasciato un’impressione indelebile in me. Ho un ricordo vivido di un servizio in tv sulla malattia. Nessuno capiva cosa stesse accadendo. Hanno ucciso tutti gli animali e mia madre disse: “Se succede alla nostra fattoria, mi uccido”. Come Pierre, i fattori chiamano spesso il loro veterinario, hanno bisogno di essere rassicurati. E la mucca pazza era una malattia inusuale che i veterinari non sapevano gestire. Non sapevano come veniva contratta. Tutti stavano impazzendo. Era pura paranoia. Alla Fémis film school avevamo un compito di sceneggiatura, sotto la guida della sceneggiatrice americana Malia Scotch Marmo che mi disse: “hai qualcosa, devi solamente scriverla”. Dopo aver finito la scuola ho incontrato Stéphanie Bermann e Alexis Dulguerian della Domino Films che erano interessati alla sinossi. Dopo due anni e mezzo di scrittura è venuta fuori la sceneggiatura.
Diresti che Pierre sei tu?
Il personaggio reagisce e parla in modo diverso, ma ovviamente Pierre conduce la vita che avrei vissuto io se non avessi deciso di fare film. La sua connessione intima con gli animali e il rapporto con i genitori sono quelli che ho io. Il film è stato girato nella fattoria dei miei. Pierre possiede trenta vacche, proprio come i miei genitori. Mia madre ha davvero molto a cuore le sue vacche: se una di loro si ammala o richiede trattamenti speciali e costosi, lei non si tira indietro. Pierre le somiglia, ma è sempre una fattoria, la produzione di latte è migliore se tratti bene il bestiame. È una cosa ambivalente: vuoi davvero bene ai tuoi animali e allo stesso tempo li sfrutti.
Cosa ci dici del vicino che è così orgoglioso del proprio robot?
Da un lato c’è la fattoria di Raymond, che è la riflessione di Pierre, solo cinquant’anni più grande. E dall’altro c’è una fattoria con un robot dove il benessere delle vacche è quasi automatico. Conosco una fattoria così, dove c’è solo una stazione radio 7 giorni su 7, 24 ore al giorno perché gli animali sono attratti dal suono. La radio è vicina al robot che le nutre e le munge. Gli animali saranno più felici, avranno maggiore autonomia ma l’obiettivo è sempre la produzione. Ben presto non ci saranno più fattorie gestite da uomini. Le vacche di Pierre hanno un nome, ben presto avranno solo dei numeri. Anche se il film sconfina nella fantasia, è stato pensato per rendere conto di questa evoluzione. Gli spettatori potranno pensare che Pierre venga contagiato dalla malattia, ma i sintomi sono piuttosto psicosomatici. I fattori vivono sotto stress. Ne conosco alcuni che prendono anti depressivi, altri che soffrono di psoriasi.
Come hai trasformato un film realistico in un thriller psicologico?
Attraverso la scrittura, le riprese ed il montaggio! Ci è venuta questa idea di passare dal naturalismo a una vena più thriller e di giocare con i codici del genere. La storia si sviluppa seguendo una falsa pista: per salvare le sue vacche, Pierre deve avere una vita sociale, vedere gli amici, addirittura uscire a cena con la panettiera. Durante le riprese abbiamo cambiato le inquadrature e la luce. Le scene degli “omicidi” sono emblematiche, per la loro lunghezza, per il montaggio ed il ritmo. La prima volta, Pierre fa su e giù dentro casa chiedendosi che arma usaree quando ritorna in campo, è completamente cambiato, è diventato un assassino. La musica composta da Myd, del Club Cheval collective, consente questo passaggio dal realismo al genere. Pierre è spesso solo e la musica è anche un modo per entrare nella sua mente.
Come hai scelto gli attori?
In Petit Paysan volevo mischiare attori professionisti con la gente comune. Mi piace lavorare in questo modo per creare un’atmosfera di verità.