In un film sincero e lineare come Un sogno chiamato Florida il rischio è quello di fermarsi all’evidenza, sottovalutando la capacità del regista di andare oltre la tumultuosa e vitale interazione tra i personaggi, cosi come di non apprezzare il fatto che Sean Baker, pur davanti a una materia importante, come può esserlo quella della marginalità sociale ed economica dei protagonisti – sufficiente a suscitare interesse e consensi intorno al progetto -, riesca comunque a salvaguardare il taglio umanistico che fin qui ha contraddistinto la sua filmografia. Certo è che i minuti iniziali, scanditi dalla contagiosa energia di Celebration, l’hit musicale dei Kool and the Gang, e occupati dalla frenesia dei bambini, felici di riprendere a giocare, risultano a dir poco spiazzanti se rapportati al dramma delle rispettive condizioni. In realtà, il cortocircuito audio visivo messo in piedi dall’autore nasconde un sottofondo narrativo che si innesta in maniera coerente con il resto del film.
Se, infatti, Un sogno chiamato Florida rimanda nei significati del titolo al tema del sogno americano, a cui allude la sfavillante presenza del parco giochi disneyano, rovescio della medaglia rispetto alla concretezza dei bisogni manifestati dai personaggi del film, altra cosa è il concetto espresso dall’originale The Florida Project, al quale, non per caso, si riallacciano le note che fanno da colonna sonora ai frame d’apertura. Celebration, infatti, non è solo la parola utilizzata nel jingle musicale ma, soprattutto, il nome della città costruita (nel 1999) dalla Walt Disney nell’intento (del fondatore) di ricreare una sorta di luogo ideale in cui pace, sicurezza e prosperità potessero essere messi a disposizione di una comunità di persone a numero chiuso, formata da membri accuratamente selezionati.
Va da sé, che, alla pari del tono leggero e, per certi versi scanzonato, con cui Baker decide di raccontare la tragedia della piccola Moonee – allevata da una madre allo sbando e incapace di prendersi cura della prole – anche i riferimenti all’utopia disneyana vengono utilizzati per enfatizzare il suo contrario, ovvero il degrado urbano e architettonico a cui sono costretti i personaggi di Un sogno chiamato Florida e, ancora, per far sentire con più forza il senso di precarietà che pesa sui loro giorni. Così, se a concorrere alla riuscita del film sono, in ordine sparso, le interpretazioni degli attori, ma anche la qualità di una messinscena che gioca sui colori (saturi come quelli che si vedono nei disegni dei bambini) e sulle differenze volumetriche messe in campo davanti alla mdp (quelle esistenti tra i bambini e le architetture sembrano riproporre scenari da Alice nel paese delle meraviglie), è la capacità di muoversi su diversi livelli di percezione a fare di Un sogno chiamato Florida un’opera fuori dal comune. Non per niente il pianto di Moonee e la fuga a Disneyland che per un attimo ne interrompe le lacrime funzionano sia come elemento di catarsi drammaturgica, in grado di fornire un briciolo di speranza al cuore delle spettatore, sia come conferma dell’implacabilità del destino che grava sulla bambina, consegnata di nuovo nelle fauci di quel sogno che di lì a poco tornerà a ingannarla, come spesso capita nei libri delle fiabe, di cui il film di Baker pare la versione filmata. Ai vertici di un’ideale classifica dei migliori lungometraggi della stagione, Un sogno chiamato Florida può contare sulla performance di un grande Willem Dafoe (nomination nella categoria di migliore attore non protagonista) e sulla straordinaria empatia di Brooklynn Prince, in certi momenti davvero impareggiabile per simpatia e spirito di coinvolgimento.