Girato nello stesso anno (il 2016) di Illegittimo, il secondo dei lungometraggi di Adrian Sitaru, Fixeur, in uscita questo mese nelle sale italiane, consente agli appassionati di farsi un’idea più precisa sull’arte cinematografica del regista, il quale, pur nel realismo dello sguardo che ne caratterizza l’approccio alla contemporaneità rumena, dimostra anche questa volta di non limitarsi alla semplice osservazione dei fatti, trasformando il documento della sua ricerca in un potente strumento drammaturgico e narrativo.
Se Illegittimo, girato in interni e fondato sul primato della parola rispetto all’azione, si confrontava in maniera intima e privata con i fantasmi della Storia, attraverso un campione di voci e personaggi rappresentativo dell’ecumene sociale, cosi succede solo in parte in Fixeur. La storia del giornalista determinato a dare una svolta alla propria carriera, organizzando l’intervista con la baby prostituta, diventata un caso nazionale dopo esser stata rimpatriata da Parigi, avendo denunciato i suoi aguzzini, vede il regista lasciarsi indietro i recessi casalinghi per intercettare gli umori del paese, cogliendoli agli angoli delle strade e nei comportamenti degli intermediari necessari ad avvicinare la ragazzina.
Strutturato alla maniera del road movie, per il fatto di sviluppare la trama attraverso le tappe che consentono al protagonista e ai suoi colleghi di rintracciare il luogo dove è detenuta la vittima, Fixeur dapprima nasconde le proprie intenzioni, definendo opinioni e schieramenti e lasciando pochi dubbi sull’identità di buoni e i cattivi: i primi sono arruolati tra le fila di una stampa progressista e militante, pronta a pagare qualsiasi prezzo pur di denunciare il degrado che favorisce il proliferare dell’illegalità; i secondi, invece, individuati tra teppisti e faccendieri che impediscono alla ragazza di parlare, ma anche alle autorità civili e religiose, che per diversi motivi si oppongono alla realizzazione dell’inchiesta. Successivamente, attraverso piccoli spostamenti di senso, mina le convenzioni cinematografiche, sfumando la linea di confine che separa il bene dal male, suggerendo che le differenze tra le parti siano meno nette di quanto inizialmente si poteva pensare, e che convenienze e tornaconto facciano da comune denominatore alle azioni di entrambe le fazioni. In questo modo, Fixeur si assicura non solo l’attenzione del pubblico, attirandolo a sè con un andamento da thriller esistenziale che risulta tanto più efficace quanto lo è la capacità dell’autore di mantenere il racconto sul filo di una disturbante ambiguità, ma anche il plauso dei cinefili, ai quali non può sfuggire il sotto testo metaforico utilizzato per rappresentare – qui, come in tutti i grandi film prodotti dalla nuova cinematografia rumena – il darwinismo sociale nato sulle macerie della passata dittatura.
Film morale, se c’è uno per il fatto di mettere costantemente i personaggi di fronte a una scelta che finisce per pesare sull’esistenza delle persone, Fixeur procede per sottrazione, arrivando al tutto grazie ai meriti di una regia in grado di assottigliare le distanze tra la vita e la sua messinscena.