Nel modo di parlare comune, quando ci si riferisce a un evento che ci ha provocato un grande dolore si dice che quella situazione ci ha spezzato in due. In realtà dal punto di vista psichico i traumi ci spezzano in tre. La personalità umana è una struttura complessa composta da molteplici dimensioni e bisogni; quando però si viene esposti a un evento traumatico massivo oppure a conflitti prolungati nel tempo con le figure significative di attaccamento, il danno emozionale che ne deriva precipita il funzionamento del sé psichico interiore in tre configurazioni rigide e bloccate, che se da una parte impediscono un’ulteriore frammentazione della mente, dall’altra costituiscono una deformazione che rischia di arrestare il processo evolutivo individuale e lo sviluppo delle emozioni e delle relazioni successive. In questo senso è possibile descrivere una parte del Sé che incassa il trauma: è la parte in cui risiedono i desideri, la vitalità, la spontaneità del soggetto e la voglia di entrare in contatto con gli altri per vivere sentimenti profondi. Il trauma la danneggia seriamente, ma qualcosa sopravvive e va adeguatamente protetta. A questo proposito subentra una seconda parte del Sé che ha l’obiettivo di organizzare un rifugio sicuro, spesso attraverso lo sviluppo di un mondo di fantasie nascosto e auto consolante, dove la parte ancora viva e superstite può ripararsi lontano dal mondo. Infine prende corpo una terza parte del Sé, che potremmo immaginare come un vigilante armato, che assume significati di difesa attiva e che utilizzerà tutti i mezzi per fare in modo che il trauma non si ripresenti più, e per farlo è disposto persino ad aggredire quella parte di sé vitale e bisognosa degli altri, che proprio a causa della sua ingenuità e apertura verso il mondo si è esposta al trauma originario. Secondo questa parte difensiva quindi la minaccia può essere sia di natura esterna, intesa come un’aggressione possibile, sia di natura interna intesa come desiderio della parte sana di ritornare a sperare nella vita e nelle relazioni.
The Shape of Water di Guillermo del Toro rappresenta una favola poetica costellata di simbologie che rimandano alle modalità di funzionamento che la mente assume dopo aver subito un danno profondo. Baltimora anni ’50, Elisa Esposito è una persona minuta, sensibile e introversa, lavora come donna delle pulizie in una struttura governativa federale e ha soltanto due amici, la collega di colore Zelda e il vicino di casa gay, Giles, gli unici che riescono a capirla e a interpretare i disegni che Elisa fa nell’aria con le sue mani, perché Elisa è muta, la sua laringe è stata recisa. Abita sopra a un cinema, le sue giornate sono scandite da gesti sempre uguali e da una avvolgente solitudine, interrotta soltanto dalle conversazioni con Giles e Zelda, le uniche persone che gli vogliono bene e rappresentano per lei la famiglia; i suoi genitori infatti l’hanno abbandonata sulle acque di un fiume alla nascita. Questi elementi tratteggiano la violenza del trauma originario subito da Elisa, l’abbandono da parte dei genitori toglie simbolicamente la parola a Elisa, la annichilisce, la ammutolisce, la getta in un limbo sospeso, una specie di coma dell’anima in cui non è possibile né dare né ricevere amore, rappresentato dall’immagine della bella addormentata che galleggia immersa nell’acqua, che apre il film.
L’acqua, quindi, incarna nella sua fluida inconsistenza la squassante violenza originaria che frantuma il rapporto di Elisa con il mondo e con i sentimenti e la spinge a vivere all’interno del guscio protettivo di abitudini ripetitive e del mondo delle fantasie, rappresentato dalla sua casa sopra il cinema; l’autoisolamento nel mondo dell’immaginazione costituisce quell’aspetto di rifugio consolatorio precedentemente delineato come dimensione del Sé che cerca di proteggere e isolare dai pericoli la parte sana e ancora viva, dopo il collasso psichico provocato dal trauma. Mentre la vita di Elisa procede indisturbata, protetta da questa anestetizzante quiete emotiva più vicina alla morte che al sonno, accade qualcosa di sconvolgente. Nella struttura in cui lavora viene segretamente condotta una strana creatura acquatica, metà uomo e metà pesce e con lui arriva anche l’agente Strickland dei servizi segreti, perfido aguzzino, sessista, razzista e omofobo, che maltratta tutte le forme di vita diverse da lui, compresa la splendida creatura acquatica che ai suoi occhi appare come una mostruosità da cancellare. Elisa invece stabilisce un contatto con la strana creatura, lentamente se ne innamora, contraccambiata, riportando verso l’esterno le pulsioni di vita e il suo bisogno di attaccamento, tanto da decidere di liberare l’essere anfibio per salvarlo dall’annientamento certo cui vorrebbe sottoporlo Strickland. L’evasione riesce e provoca la furiosa reazione dell’agente segreto che userà qualunque tipo di violenza per cercare di raggiungere la creatura che è stata sottratta al suo dominio per ucciderla, poiché considerata pericolosa per la civiltà americana.
La creatura che riaccende in Elisa la voglia di tornare a credere nell’amore e nella vita proviene dall’acqua, cioè la stessa dimensione dell’abbandono materno, lo stesso luogo del trauma. La creatura è una formazione dell’inconscio che rivitalizza l’affettività agonizzante di Elisa, la spinge a uscire fuori dal suo rifugio mentale e proprio per questo scatena le brutali reazioni della parte difensiva che deve cercare a tutti i costi di ritornare all’equilibrio precedente per evitare che il vero Sè autentico, portatore di bisogni di unione affettiva ed esplorazione del mondo, possa esporre nuovamente l’intera struttura al cataclisma dell’abbandono traumatico. In una sorta di riedizione invertita del mito di Orfeo ed Euridice, l’eroe spinto dall’amore non scende negli abissi infernali per strappare la sua amata dalla morte bensì dagli abissi emerge per sottrarre, la donna ferita dalla perdita d’amore, a un’esistenza di superficie meccanica e ripetitiva per inabissarsi insieme ad essa nelle acque profonde della vita.
Damiano Biondi