La guardia forestale Cory Lambert, in servizio presso la riserva indiana di Wind River nel Wyoming, rinviene il cadavere di una ragazza del luogo nella neve e indaga sulle cause del delitto insieme all’agente dell’Fbi Jane Banner, inviata dal governo centrale in quel remoto e impervio angolo del paese. La conoscenza di Lambert degli abitanti delle riserve e del territorio ostile si rivelano fondamentali per risolvere l’indagine.
Vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Un certain regard all’ultimo Festival di Cannes, il film di Taylor Sheridan è un solido poliziesco dall’atmosfera western, che recupera uno dei temi fondanti di quel genere e del cinema americano tout court: quello del rapporto dell’uomo con una natura selvaggia ed ostile, che trascende le vicende umane con la vastità dei suoi spazi e la rigidità del clima. Ancor più dell’indagine svolta dai protagonisti – per quanto efficacemente sviluppata dalla sceneggiatura – conta lo sguardo del regista sull’immenso paesaggio che circonda i personaggi: un deserto di ghiaccio e neve che plasma il carattere di chi vi abita e lo costringe a rivestirsi di una scorza d’indifferenza per sopravvivere in quell’ambiente.
Già sceneggiatore di film quali Hell on High Water di David Mackenzie (per il cui copione è stato candidato all’Oscar) e Sicario di Denis Villeneuve (regista di Arrival, di cui Wind River condivide il protagonista Jeremy Renner), Taylor Sheridan torna alla regia dopo l’esordio con Vile del 2011. I segreti di Wind River si rivela particolarmente riuscito, capace com’è di fondere l’analisi dei personaggi con quella ambientale, o, meglio, di rendere il paesaggio rappresentazione fisica e concreta dell’interiorità dei personaggi. La desolazione che incombe sugli elementi naturali e sull’uomo, la neve e il ghiaccio che ricoprono la terra e gli alberi, il cielo basso e opprimente, costantemente coperto dalle nubi, diventano manifestazione visibile dei conflitti interiori, del senso di vuoto e d’aridità che affligge i personaggi, specialmente di Lambert, il quale cela sotto a una patina d’indifferenza e di distacco il tormento per la tragedia personale che l’ha colpito e di cui si ritiene responsabile.
Quello rappresentato dal film è, dunque, un ambiente lontano e alternativo alla città, intesa come centro propulsore di norme e consuetudini atte a regolare la vita associata. Qui le leggi della civiltà urbana non valgono più e conta invece la capacità di adattamento all’asprezza del clima e i legami che s’instaurano fra gli uomini, al di là della legge positiva. Oltre che sull’elemento paesaggistico, il film si concentra, infatti, sul rapporto fra due comunità, quella indigena e quella bianca, con le diffidenze che le dividono e le separano l’una dall’altra. Lo stretto legame che Lambert intrattiene con gli abitanti della riserva – e che lascia il personaggio dell’agente federale sullo sfondo quando questi ultimi sono in scena – non elimina i problemi che li affliggono, come la povertà, l’emarginazione e la violenza. Ma quest’ultima, oltre a segnare il rapporto fra gli uomini, costituisce anche la base del legame fra l’uomo e gli animali, mostrato nella sua crudezza. La divisione profonda che intercorre fra la natura e l’uomo, e fra questo e gli animali, costituisce anche la condizione del rapporto fra i sessi, improntato anch’esso alla sopraffazione e alla violenza: a dominare in un tale ambiente sembra essere la legge del più forte, per cui a soccombere, come le parole di Lambert a proposito dei cervi spiegano, sono i più deboli.
La sostanziale riuscita de I segreti di Wind River è inoltre dovuta alla costruzione narrativa, che dosa con parsimonia i colpi di scena e rivela la soluzione del giallo attraverso un flashback, senza che venga perciò meno la tensione che permea l’intero film, forte di una regia che alterna scene d’azione dal ritmo nervoso e veloce a indugi che valorizzano la valenza simbolica del paesaggio. Concorrono poi al buon esito complessivo le interpretazioni misurate ed essenziali dei protagonisti, specie di Renner, il quale riesce a esprimere efficacemente il travaglio che lo tormenta senza calcare la mano e lavorando in sottrazione; anche Elizabeth Olsen, d’altro canto, dà corpo con la necessaria convinzione a un personaggio complesso e per nulla prevedibile, gettato in una terra straniera, dove per svolgere la sua indagine è costretta a fidarsi e a collaborare col taciturno e introverso Lambert.
Analogo discorso vale per la regia di Taylor Sheridan, aliena dal sensazionalismo e dalla ricerca del facile effetto, tesa, di contro, a rappresentare, attraverso le immagini, i contrasti che separano l’uomo dai suoi simili e dall’ambiente che abita. Si può infine accostare I segreti di Wind River, per similarità tematiche e per una scelta di regia per così dire contenuta, che rifiuta toni enfatici e sovraccarichi, ad altri film venuti da oltreoceano negli ultimi anni, anch’essi produzioni indipendenti, quali ad esempio Un gelido inverno (2010) di Debra Granik (con una non ancora famosa Jennifer Lawrence) e il più recente Go with me – Sul sentiero della vendetta (2015) di Daniel Alfredson con Anthony Hopkins; opere dove al centro c’è il rapporto dell’uomo con una natura selvatica e ostile, e l’individuo si muove al di fuori delle norme della civiltà: temi questi profondamente radicati nell’immaginario e nella tradizioni culturale americana, che è in fondo ancora quella del pioniere che, giunto da un altro paese, si trova solo ad affrontare le difficoltà provocate dal contatto con una terra non ancora toccata dalla civiltà occidentale. Il mito della frontiera, fondativo della cultura americana, come si vede non è ancora morto.