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Perché e come sei diventato un regista?
M. Il mio ingresso nel mondo del cinema ha preso avvio lavorando come production designer per i registi filippini di film mainstream. Dopo molti anni di quest’attività, non mi sentivo realizzato a pieno, sia da un punto di vista economico, visto che non riuscivo a guadagnare un granché, e soprattutto perché i film di cui mi occupavo erano esclusivamente d’azione o di mainstream. Non c’era modo di crescere, di evolversi, andando avanti per quella direzione. Così mi sono detto che avrei dovuto realizzare qualcosa di cui andare orgoglioso e che avrebbe potuto permettermi di avere più soldi da investire in progetti interessanti. Sono perciò passato all’advertising delle tv commerciali come art director, rimandendoci per 12 anni, fino a quando nel 2005 un mio amico mi propose di realizzare un film. Gli risposi “Perché no?” e, pensando che stesse scherzando, aggiunsi che se mi avesse dato i soldi avrei girato qualsiasi cosa! Il mio amico invece mi lasciò uno script e, dopo qualche mese, mi consegnò un assegno di 150.000 pesos (poche centinaia di dollari), dicendomi che avrei potuto girare qualunque cosa avessi voluto con quei soldi. Solo in quel momento ho capito che faceva veramente sul serio e, pur rendendomi conto che i soldi ricevuti non erano sufficienti per mettere in piedi un film, li accettai comunque e iniziai a lavorare sullo script. Ecco com’è nata Masahista (2005), la mia opera prima. Dopo aver letto la storia, ero deciso a cambiarla: risultava marcatamente d’amore, troppo melodrammatica; volevo invece concentrarmi sulla figura emergente, decisamente interessante: quella del massaggiatore. Il mio amico mi ha concesso totale libertà nei cambiamenti, eccezion fatta per il titolo, ritenendolo decisamente commerciale e perciò più adatto ad attirare l’attenzione del pubblico. Ho quindi modificato lo script, procedendo alle sostituzioni attraverso un’intensa attività di ricerca sul mondo dei massaggiatori. Una volta ‘bloccata la storia’, ho girato in 8 giorni. Masahista è stato presentato al Festival Internazionale del Film di Locarno nel 2005, vincendo il Pardo d’Oro nella sezione video.
Qual era il tuo rapporto col cinema prima di diventare regista?
M. Da giovane amavo i film hollywoodiani. Guardavo i film d’azione, di fantascienza, in generale, di fiction. Mi piaceva tutto ciò che si faceva a Hollywood perché per me, all’epoca, tutti i film hollywoodiani erano buoni. Perfetti. Questa era la mia idea di regia in quel periodo.
Hai dei riferimenti cinematografici?
M. Saturday night fever, Superman, Batman, Titanic!
Però la tua cinematografia, estremamente realistica e senza mediazioni, è molto distante dal genere hollywoodiano…
M. Prima di diventare regista, il mio sguardo sul cinema era legato esclusivamente ad un approccio da spettatore. Lo osservavo e lo consideravo come puro entertainment, non sapevo cosa volesse dire essere un filmmaker. Quando ho cominciato a girare film, la mia prospettiva è mutata: ho compreso cosa fosse il cinema, cosa significhi girare, come si raccontano le storie.
Hai quindi cambiato/adattato a tale approccio i tuoi gusti cinematografici?
M. Assolutamente no. Guardo ancora il cinema hollywoodiano, ma solo per rilassarmi, divertirmi… Per gli effetti speciali, la fotografia… Puro intrattenimento. L’intrattenimento è un aspetto del cinema da cui non si può prescindere, secondo me. Quando voglio svagarmi so cosa guardare, anche se ora in realtà non ne ho più il tempo. Gli unici film che riesco a vedere sono quelli proiettati durante i festival a cui partecipo.
Dal un punto di vista distributivo, in quale tipo di circuito nazionale ed internazionale si collocano i tuoi film?
M. Sotto il profilo contenutistico e distributivo i miei film sono etichettabili art house, il corrispettivo dell’europeo cinema d’autore. Girano prevalentemente in circuiti d’essay, sia a livello nazionale che internazionale.
Riesci a preservare la tua indipendenza cinematografica, affrontando tematiche scomode, poco empatiche, specie per il mercato filippino che ti contiene?
M. Sono completamente indipendente, sia come individuo che nella veste di regista. Ho messo su una mia piccola casa di produzione proprio perché, in questo modo, riesco a mantenere il controllo totale sulle mie scelte, sugli attori da impiegare, sulle storie da raccontare. Decido da me le location, avendo anche il controllo dei costi da sostenere. Ho, insomma, la possibilità di apporre la parola definitiva su ogni cosa, e questo è essenziale nel portare a termine esattamente ciò che intendi realizzare, senza deviazioni, né compromessi. Anche se mi avvalgo di collaboratori che gestiscono i vari aspetti della produzione e della messa in scena cinematografica, preferisco sempre essere informato di tutto ciò che accade. Questo è il modo che ho di lavorare e anche se qualcosa dovesse andar storto, ho le mie risorse per farvi fronte, non rispondendone a nessun altro se non a me stesso.
Immagino non sia stato affatto semplice riuscirci, rimanendo saldi e inattaccabili…
M. Certo, non è facile… Ma se vuoi realizzare un progetto devi anche trovare il modo di farlo. Non permetto a nessuno di fermarmi. Voglio essere indipendente perché voglio avere la completa libertà nel mio lavoro. Non voglio dipendere dal governo, non voglio essere controllato,,non voglio accettare compromessi per me e le mie storie. Ho ricevuto buone offerte relativamente a progetti da realizzare nelle Filippine, però alla fine non ho accettato perché non era il tipo di cinema adatto a me. Se qualcuno volesse partecipare ai progetti che porto avanti, invece, sarei comunque molto propenso a coinvolgerlo nella collaborazione. Anche se ho un ruolo ‘accentratore’ nella mia casa di produzione, mi piace il lavoro di squadra.
Come definiresti il cinema che metti in atto?
M. Il mio cinema si spinge fino al limite del realismo. Racconta storie di persone e situazioni ordinarie, avvalendosi di un’estetica docu-realistica. Sostanzialmente realizzo dei docudrama. Ho scelto tale modalità di rappresentazione perché desidero che il mio lavoro sia il più possibile fedele al reale, in modo da essere assolutamente credibile. Lo spettatore che guarda i miei film deve avere la cognizione di quello che realmente accade. Quando si vede un film così vicino alla vita reale, tale tipo di percezione permette di essere più partecipi rispetto a ciò che si guarda e, di conseguenza, di avvicinarsi maggiormente a se stessi differentemente da altri tipi di esperienze. All’uscita dalla sala lo spettatore conserverà nel proprio cuore le storie che ha vissuto in simbiosi, ricordandole a lungo dopo averle viste, sia che abbia assorbito sensazioni positive, sia che abbia impattato con l’inquietudine e le emozioni forti. Questo è il giusto modo di fare un film, per me.
Ci descrivi il rapporto con gli attori che lavorano con te? Sono tutti professionisti oppure scegli anche gente sul campo senza esperienza?
M. Molti degli attori con cui lavoro sono miei buoni amici e sono degli attori professionisti. Alla base del lavoro con gli attori esiste un rapporto di fiducia, nel senso che parlo molto con loro prima di girare. Sul set non ho mai detto a un attore come recitare, perché in quella fase sono già dei personaggi pronti. Molto del lavoro con gli attori viene prima, attraverso un lungo processo comunicativo che mira appunto a instaurare reciproca fiducia, mancando la quale non ci può essere una recitazione efficace. Per realizzare una simile intesa bisogna parlarsi: non necessariamente della storia, ma soprattutto del personaggio da rappresentare, affinchè si riesca a comprendere il ruolo da gestire e le caratteristiche psicologico-emotive da assorbire. Rendo i miei attori parte attiva facendoli fare ricerche, spingendoli a conoscere quanto più possibile dell’uomo, della donna o del bambino che interpretano. Li responsabilizzo. La fiducia su cui investiamo è reciproca.
Che valore ha per te il cinema?
M. Non posso sintetizzare in una parola, in una frase, tutto quello che il cinema significa per me. Ciò che rappresentava 5 o 10 anni fa è diverso dall’idea che ho oggi intorno ad esso e non so cosa diventerà in futuro il cinema per me, dopo i miei prossimi progetti. Esiste una magia, un viaggio continuo e una continua introspezione. È una scoperta ininterrotta, non puoi definirlo completamente. Potrei usare l’accezione di ‘modo di raccontare le storie’, ma potrei anche identificarlo come una ‘modalità di sperimentazione’; non esistono limiti, si va oltre, non ci sono regole, anche se prima di giungere a decidere di fissare un limite come regista, è essenziale conoscere le regole. Bisogna imprescindibilmente esercitarsi con le regole, perché, per fare un esempio banale ma efficace, non puoi dipingere un quadro astratto senza prima possedere i fondamenti della pittura. Soltanto conoscendo le regole, i limiti possono essere travalicati, e in tal modo continuare ad esplorare e sperimentare.
C’è, e se è definibile, qual è l’unicum presente nelle tue pellicole?
M. Tutto quello che si vede nei miei film è fedele alla realtà, a ciò che accade. Penso che se esiste un punto di contatto tra i miei film, questo è l’essenza del vero, l’onestà nel trattare ciò che racconto. Non cerco di far emergere il lato peggiore delle Filippine nelle mie rappresentazioni, ma di portare in superficie solo ciò che realmente accade nel mio Paese. Sono consapevole che le mie pellicole mettono a fuoco tematiche controverse, e che Kinatay (miglior regia a Cannes 2009) è sicuramente la mia storia più scomoda, ma purtroppo quelle vicende a cui assistiamo sono niente altro che la pura verità. Effettivamente le persone vengono fatte a pezzi e gettate per la strada, tra la spazzatura. Riguardo alle origini di Kinatay, due filippini mi hanno raccontato storie di questo tipo avvenute negli anni ’60. Poi ho incontrato uno studente che aveva vissuto personalmente l’esperienza agghiacciante che riporto nel film, e sono rimasto talmente colpito dalla sua espressione di terrore mentre mi faceva partecipe dell’orrore che aveva vissuto, che ho deciso di realizzare questo film. Anche per Lola è stato così. Guardavo la televisione e mi sono imbattuto nella storia di due nonne, una che cercava aiuto per poter seppellire il nipote assassinato, l’altra che chiedeva denaro alla gente per salvare suo nipote dalla pena dell’impiccagione per omicidio. Entrambe le pellicole testimoniano vicende realmente accadute, la tragicità dell’ingiustizia e le colpe del sistema legale delle Filippine…Isolo e sviluppo casi particolari, estremi, ma non lo faccio per ritrarre il lato peggiore della società. Voglio mostrare l’altra faccia della società, quella che non è da cartolina o turistica. Non sono una ambasciatore del bene delle Filippine. Sono un regista.
Hai già in cantiere un prossimo film?
M. Sì, e sarò coinvolto con la Francia in una produzione internazionale dove mi confronterò con il tema religioso, elemento estremamente radicato nelle Filippine, dove l’80% della popolazione è a maggioranza cattolica. Girerò un film con Isabelle Huppert, che interpreterà una missionaria francese nel sud delle filippine, zona a forte presenza musulmana, che si scontrerà con il radicalismo religioso degli Abusaiaf, gruppo particolarmente violento e considerato vicino ad Al Quaeda. Le riprese dovrebbero cominciare agli inizi del 2011.
di Francesca Vantaggiato e Maria Cera